domenica 26 dicembre 2010

Dominare la mente e trasformare i pensieri

Tratto da: http://traterraecielo.bloog.it/cat/psicologia-vedica

"Dello STRUMENTO PIU' RAFFINATO ED ELEVATO CHE ABBIAMO a nostra disposizione, ovvero LA NOSTRA MENTE, NON SAPPIAMO FARE IL GIUSTO USO al punto che, si potrebbe dire,  E' QUESTO STESSO STRUMENTO CHE "USA" NOI.
Contrariamente alla concezione occidentale che vuole che mente e intelletto siano una cosa sola, la visione trasmessa dal Vedanta (testi sacri indiani che trattano la Verità Suprema e il sentiero per realizzarla) intende queste due parti come facenti parte di un sistema composto di quattro strumenti o meglio quattro distinte funzioni:
  • MANAS, la MENTE, è lo strumento di coordinazione delle sensazioni percepite dall’esterno attraverso i sensi. In essa risiede la facoltà del dubbio.
  • L’INTELLETTO prende il nome di Buddhi e costituisce la sede delle capacità decisionali, è lo strumento che ci consente di scegliere e di discriminare. Tutte le nostre azioni sono indotte dalle decisioni dell’intelletto.
  • CHITTA è l’archivio in cui sono conservati i nostri ricordi e in essa risiedono anche i nostri preconcetti in merito alle persone e alle situazioni che incontriamo nella nostra vita.
  • In ultimo c’è AHAMKARA, il senso dell’io, ciò che ci dà COSCIENZA delle azioni che compiamo e degli effetti delle nostre esperienze.
  • La MENTE, secondo il Vedanta, è un semplice FLUSSO DI PENSIERI che noi dovremmo essere in grado di controllare. Il problema è che NOI NON SAPPIAMO USARE LA NOSTRA MENTE, così, PER LA MAGGIOR PARTE DEL TEMPO SIAMO NOI A RIMANERE SOTTO IL SUO CONTROLLO ANZICHE' IL CONTRARIO, dando luogo al fatto per cui E' LO STRUMENTO CHE USA NOI PER FARE CIO' CHE VUOLE. Per spiegare chiaramente questo concetto si usa generalmente l’esempio del cane che scodinzola agitando la coda per mostrare la sua felicità Se, però, fosse la coda a “scodinzolare” il cane, l’animale avrebbe ben pochi motivi per essere felice. Bene, noi, nei confronti della nostra mente, siamo come il cane “scodinzolato” dalla sua coda. L’effetto diretto di questa nostra incapacità a servirci come dovremmo di questo eccelso strumento è che SIAMO CONTINUAMENTE PREDA DELLA NOSTRA EMOTIVITA' che a sua volta DIPENDE  strettamente DAI PENSIERI CHE ATTRAVERSANO LA NOSTRA MENTE. Siamo ora felici o depressi, ora esaltati e speranzosi, ora tristi e sconfortati in base al pensiero che in quel momento ci domina.
    IMPARARE A USARE LA MENTE NEL MODO CORRETTO, USANDOLA, ANZICHE' FACENDOCENE USARE,  renderebbe sicuramente la nostra vita più serena e pacifica. Controllare gli strumenti di cui siamo stati dotati per rendere confortevole il viaggio della nostra vita ci permette di affrontare una situazione critica con una mente calma e tranquilla, consentendoci anche di attingere alla nostra forza interiore e alle risorse che ci sono in tutti noi.
E’ questo uno dei fondamenti dell’antica saggezza. In linea con questa affermazione è anche uno dei principali insegnamenti di PATANJALI – autore degli YOGASUTRA e colui che codificò il Raja Yoga – e secondo cui “QUANDO SORGE UN PENSIERO CONTRARIO ALLO YOGA (UNIONE), E' NECESSARIO SVILUPPARE IL PENSIERO OPPOSTO”. Da qui l’importanza della MEDITAZIONE, strumento INDISPENSABILE PER IL DOMINIO DELLA MENTE e per l’estinzione dei movimenti della sostanza mentale.
Si tratta di un principio che ha evidenze filosofiche ma anche scientifiche e fisiologiche che dimostrano come LA MENTE, SE ALIMENTATA DA PENSIERI NEGATIVI,  da preconcetti e pregiudizi, da idee di rancore, odio, invidia, gelosia, SIA PORTATA A SVILUPPARE COMPORTAMENTI coatti E RISPOSTE AUTOMATICHE CHE LIMITANO LA LIBERTA' DELL'INDIVIDUO E LO INDUCONO A SUBIRE PASSIVAMENTE, ANZICHE' AGIRE, I SUOI STESSI COMPORTAMENTI. Ciò che Patanjali insegna è che E' POSSIBILE LIBERARSI DA TALE CORTO CIRCUITO MENTALE attraverso la MEDITAZIONE SUL PENSIERO OPPOSTO. Stati alterati dell’umore, depressione, pensieri negativi che spesso nelle nostre giornate INTOSSICANO IL NOSTRO AMBIENTE INTERIORE E IL NOSTRO SENTIRE, possono così essere COMBATTUTI ED ELIMINATI LASCIANDO SPAZIO A STATI LUMINOSI E POSITIVI che arricchiscono noi e coloro che ci sono vicini, per affetto o per lavoro.
MEDITARE SUL PENSIERO OPPOSTO non significa limitarsi a PENSARE RAZIONALMENTE e superficialmente a qualcosa di contrastante rispetto all’EMOZIONE NEGATIVA che in quel momento DOMINA LA NOSTRA MENTE, ma SIGNIFICA RISIEDERE, SITUARSI, DIMORARE NEL PENSIERO OPPOSTO, ANDANDO IN PROFONDITA' NELLA COSCIENZA e giungendo al livello di bioenergia. Solo SVILUPPANDO UN SENTIMENTO, UN'EMOZIONE FORTE CONNESSA AL PENSIERO OPPOSTO, si potrà CONTRASTARE L'IDEA FISSA PATOLOGICA PARALIZZANTE E SCHIAVIZZANTE che ci fa sprofondare inquinandoci e SOSTITUIRLA CON PENSIERI PIU' POSITIVI E NUTRIENTI.  Questo PROCESSO DI RAPPRESENTAZIONI INTERIORI, in apparenza difficile, è in realtà frutto esclusivamente di EDUCAZIONE e di PRATICA, poiché E' POSSIBILE IMPARARE A VISUALIZZARE EVOCANDO EMOZIONI COSTRUTTIVE, EVOLUTIVE, che permettono di ascendere a piani superiori di coscienza e che magari sono state già sporadicamente sperimentate nel corso della nostra esistenza ma, per il loro carattere di rarità, non hanno avuto modo di rinforzarsi adeguatamente, come, invece, le più frequenti esperienze negative o in generale sensoriali.

Bateson e la visione unitaria del pensiero vedico


Sono da poco reduce da un convegno organizzato a Roma dal Circolo Bateson e da Legambiente per commemorare i 30 anni dalla morte di quello che fu un grande filosofo, sociologo, cibernetico e antropologo novecentesco, Gregory Bateson, che con il suo innovativo pensiero ha finalmente riunito nell’ambito della visione moderna occidentale ciò che Cartesio aveva diviso: mente e materia. In particolare il convegno, intitolato “Per un’ecologia della mente”, si è rifatto direttamente ad uno dei suoi saggi più famosi, in cui in qualche modo Bateson ha posto i criteri fondanti una nuova scienza che parte dal presupposto che LA MENTE SIA PARTE INTEGRANTE DELLA REALTA' MATERIALE, quindi ASSOLUTAMENTE SIMILE PER STRUTTURA AL RESTO DEL MONDO Tutto è materia pensante ha detto Bateson e con questo ha dato inizio ad un nuovo modo di pensare. Un modo di pensare nuovo per l’occidente che ha sempre pensato e agito come se l’uomo, in quanto essere razionale (res cogitans) fosse altro dalla natura (res extensa) e ha lasciato che a prendere il sopravvento fosse una visione lineare della realtà, ma un modo di pensare che, a ben vedere, si avvicina tantissimo, fino a sovrapporsi in tantissimi punti, al pensiero dominante orientale, quello che ritroviamo nelle antiche scritture dei Veda, gli antichi testi sacri dell’India classica.

Per la psicologia indovedica, infatti, gli oggetti psichici (le idee, i pensieri, le immagini, le emozioni, i sentimenti) sono caratterizzati da proprie conformazioni e funzioni e non sono meno reali dei corpi fisici.
Secondo l’antica tradizione, dunque, l’UNIVERSO è costituito di psiche, è ENERGIA PSICHICA IN ESPANSIONE, un PENSIERO COMPLESSO la cui condensazione è il mondo fisico, nel quale si esplicita l’esperienza empirica. QUALSIASI COSA, DA UN LIBRO AD UNA SEDIA, PRIMA DI DIVENTARE TALI SONO STATI UN PENSIERO, UN'IDEA. Il mondo fisico, come quello mentale, è carico di energia e ogni oggetto possiede un flusso di forze psichiche.
Da qui il concetto secondo cui microcosmo e macrocosmo sono indissolubilmente legati. Entrambi “poggiano” su di un ordine celato, implicito, che altro non è che il pensiero. Dell’argomento si tratta anche nella Bhagavad Gita (XV, 9) dove si spiega che la struttura fisica di qualsiasi essere vivente ruota intorno a quella psichica e che lo stesso vale per il macrocosmo.

Le parole del pensiero antico riecheggiano negli scritti di Bateson che ha affermato come mondo fisico e mondo mentale non siano separabili, in quanto la mente è sempre immanente nel sistema. OGNI SISTEMA SAREBBE, DUNQUE, UNA MENTE: si possono definire mente gli individui, la società e infine l’intero ECOSISTEMA, il quale, secondo lo studioso, E' IL SISTEMA PIU' GRANDE CHE ESISTA, di cui ogni comunità, famiglia ed essere umano è solo semplice sottosistema: l’uomo è una piccola parte di un meccanismo immenso che connette ogni essere.
Aver del tutto messo da parte questo modo di vedere il mondo e la realtà in genere ha portato la società occidentale a considerare il mondo che ci circonda secondo un sistema dicotomico, il quale separa ragione ed emozioni, individuo e società, e, inevitabilmente, umanità e natura. Ciò porta a selezionare il contenuto della mente in base ad un criterio di esclusiva finalità, per soddisfare il desiderio di ognuno di ottenere profitto personale, ignorando il più vasto sistema individuo-società-ecosistema e appropriandosi impropriamente dell’identità di mente, da cui gli immani danni ambientali e relazionali che ci troviamo a vivere.
Un modo di pensare davvero innovativo ma ancora troppo sottovalutato che sollecita allo sviluppo di una nuova “ecologia delle idee”, come la chiama il filosofo, ossia una riflessione più attenta alla relazioni tra individui ed ecosistema, in modo da fare di questo binomio il fondamento di un nuovo modo di vivere e di mettersi in relazione con gli altri e con il mondo"

martedì 21 dicembre 2010

L'Ardore di Roberto Calasso

I    - Esseri Remoti
II   - Yajnavalkya
III - Animali

Codice vedico
“Ardore” ed è un’opera di amplissimo respiro intorno alle antiche scritture indiane, i Veda.


L'Ardore
Il racconto della sapienza vedica.

Premessa dell'autore.

Qualcosa di immensamente remoto dal­l’oggi apparve più di tremila anni fa nel­l’India del Nord: il Veda, un «sapere» che comprendeva in sé tutto, dai granelli di sabbia sino ai confini dell’universo. Distanza che si avverte nel modo di vivere o­gni gesto, ogni parola, ogni im­presa. Gli uomini vedici prestavano un’attenzione adamantina alla mente che li reggeva, mai disgiungibile da quell’«ardore» da cui ritenevano si fosse sviluppato il mondo. L’at­timo acquistava senso in rapporto a un invisibile traboc­cante di presenze divine. Fu un esperi­mento del pensiero così estremo che sarebbe potuto scomparire senza lasciare traccia del suo passaggio nella «terra dove vaga in libertà l’antilope nera» (così veniva definito il luogo della legge). Eppure quel pensiero –groviglio com­posto da inni enigmatici, atti rituali, storie di dèi e folgorazioni metafisiche – ha l’indubita­bile capacità di illuminare con luce radente, diversa da ogni altra, gli eventi elementari che appartengono all’esperienza di chiunque, oggi e dappertutto, a cominciare dal puro fatto di es­sere coscienti. Così collidendo con molte di quelle che vengono ormai considerate ferme acquisizioni. Que­sto libro raccon­ta come attraverso i «cento cammini» a cui allude il titolo di un’o­pe­ra smisurata e capitale del Veda, lo Śatapatha Brāh­maņa, si può raggiungere ciò che sta davanti ai nostri occhi passando attra­verso ciò che da noi è più lontano.

Settimo pannello di un'opera in corso finora composta da La rovina di Kasch (1983), Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Twpok (2006) e La Folie Baudelaire (2008), L'ardore, come già La rovina di Kasch, ha al suo centro simultaneamente l'India vedica e 1'«innominabile attuale».


Quanti fuochi, quanti soli, quante aurore,
quante mai sono le acque? Non ve lo dico
per sfida, o voi Padri. Lo chiedo per sapere,
o voi poeti.                
Rgveda, 10,88,18


I. ESSERI  REMOT I

Erano esseri remoti, non solo dai moderni ma dai loro contemporanei antichi. Distanti non già come un'altra cultura, ma come un altro corpo celeste. Così distanti che il punto da cui vengono osservati diventa pressoché indifferente. Che ciò avvenga oggi o cento anni or sono, nulla di essenziale cambia. Per chi è nato in India alcune parole, alcuni gesti, alcuni oggetti potranno suonare più familiari, come un invincibile atavismo. Ma sono lembi dispersi di un sogno di cui si è annebbiata la vicenda.
Incerti i luoghi e i tempi in cui vissero. I tempi: più di tremila anni or sono, ma le oscillazioni nelle date, fra uno studioso e l'altro, rimangono notevoli. L'area: il nord del subcontinente indiano, ma senza confini precisi. Non lasciarono oggetti né immagini. Lasciarono soltanto parole. Versi e formule che scandivano rituali. Meticolose trattazioni che descrivevano e spiegavano quegli stessi rituali. Al centro dei quali appariva una pianta inebriante, il soma, che ancora oggi non è stata identificata con sicurezza. Già allora ne parlavano come di una cosa del passato. Apparentemente non riuscivano più a trovarla.
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L'India vedica non ebbe una Semiramide né una Nefertiti. E neppure un Hammurabi o un Ramses II. Nessun De Mille è riuscito a metterla in scena. Fu la civiltà dove l'invisibile prevaleva sul visibile. Come poche altre, fu esposta a essere incompresa. Per capirla, è inutile ricorrere agli eventi, che non hanno lasciato tracce. Rimangono solo testi: il Veda, il Sapere. Composto di inni, invocazioni, scongiuri, in versi. Di formule e prescrizioni rituali, in prosa. I versi sono incastonati in momenti delle complicatissime azioni rituali. Le quali vanno dalla doppia libagione, agnihotra, che il capofamiglia è tenuto a compiere da solo, ogni giorno, per quasi tutta la vita, fino al sacrificio più imponente - il «sacrificio del cavallo», asvamedha -, che implica la partecipazione di centinaia e centinaia di uomini e animali.
Gli Aryai nobili», così gli uomini vedici chiamavano se stessi) ignorarono la storia con una insolenza che non ha uguali nelle vicende di altre grandi civiltà. Dei loro re conosciamo i nomi soltanto attraverso accenni nel Rgveda e aneddoti narrati nei Bràhmana e nelle Upanisad. Non si preoccuparono di lasciare memoria delle loro conquiste. E anche negli episodi di cui è giunta notizia non si tratta tanto di imprese - belliche o amministrative -, ma di conoscenza.
Se parlavano di «atti», pensavano soprattutto ad atti rituali. Non meraviglia che non abbiano fondato -né abbiano mai tentato di fondare - un impero. Preferirono pensare qual è l'essenza della sovranità. La trovarono nella sua duplicità, nel suo spartirsi fra brahmani e ksatriya, fra sacerdoti e guerrieri, auctoritas e po-testas. Sono le due chiavi, senza le quali nulla si apre, su nulla si regna. Tutta la storia può essere considerata sotto l'angolo dei loro rapporti, che incessantemente mutano, si aggiustano, si occultano - nelle aquile bicipiti, nelle chiavi di san Pietro. C'è sempre una tensione, che oscilla fra l'armonia e il conflitto mortale. Su quella diarchia e sulle sue inesauribili conseguenze la civiltà vedica si è concentrata con la più alta e sottile chiaroveggenza.
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Il culto era affidato ai brahmani. Il governo agli ksahiya. Su questo fondamento si erigeva il resto. Ma, come tutto ciò che accadeva sulla terra, anche quel rapporto aveva il suo modello in cielo. Anche lì c'erano un re e un sacerdote: Indra era il re, Brhaspati il brahmano dei Deva, il cappellano degli dèi. E solo l'alleanza fra  Indra e Brhaspati poteva garantire la vita sulla terra. Però fra i due si interponeva subito un terzo personaggio: Soma, l'oggetto del desiderio. Un altro re e un succo inebriante. Che si sarebbe comportato in modo irrispettoso ed elusivo verso i due rappresentanti della sovranità. Indra, che si era battuto per conquistare il soma, alla fine ne sarebbe stato escluso dagli stessi dèi a cui lo aveva donato. E Brhaspati, l'inavvicinabile brahmano dalla voce di tuono, «nato nella nuvola»? Il re Soma, tracotante per la eminente sovranità che aveva raggiunto», rapì sua moglie Tara e si congiunse con lei, che dal suo seme generò Budha. Quando il figlio nacque, lo depose su un letto di erba munja. Brahmà allora chiese a Tara (e fu l'acme della vergogna): «Figlia mia, dimmi, questo è il figlio di Brhaspati o di Soma?». Allora Tara dovette riconoscere che era figlio del re Soma, altrimenti nessuna donna sarebbe stata creduta in futuro (ma qualche ripercussione della vicenda continuò a trasmettersi, di eone in eone). E ci fu bisogno di una feroce guerra fra i Deva e gli Asura gli antidèi, perché Soma si convincesse alla fine a restituire Tara a Brhaspati. Dice il Rgveda: «Tremenda è la moglie del brahmano, se viene rapita; ciò crea disordine nel cielo supremo». Tanto doveva bastare per gli improvvidi umani, che talvolta si domandavano perché e intorno a che cosa si battessero i Deva con gli Asura nel cielo, in quelle loro sempre rinnovate battaglie. Ora lo avrebbero saputo: per una donna. Per la donna più pericolosa: per la moglie del primo fra i brahmani.
Non c'erano templi, né santuari, né mura. C'erano re, ma senza regni dai confini tracciati e sicuri. Si muovevano periodicamente su carri con ruote provviste di
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raggi. Quelle ruote furono la grande novità che apportarono: prima di loro, nei regni di Harappa e Mohenjo-daro si conoscevano solo le ruote compatte, solide, lente. Appena si fermavano, si curavano soprattutto di installare fuochi e accenderli. Tre fuochi, di cui uno circolare, uno quadrato e uno a forma di mezzaluna. Sapevano cuocere i mattoni, ma li usavano soltanto per costruire l'altare che stava al centro di un loro rito. Aveva la forma di un uccello -un falco o un'aquila- dalle ali spiegate. Lo chiamavano l'«altare del fuoco». Passavano la maggior parte del tempo in una radura sgombra, in lieve pendio, dove si affaccendavano attorno ai fuochi mormorando formule e cantando frammenti di inni. Era un assetto di vita impenetrabile se non dopo un lungo addestramento. La loro mente pullulava di immagini. Forse anche per questo non si curarono di intagliare o scolpire figure degli dèi. Come se, essendone già attorniati, non sentissero il bisogno di aggiungerne altre.
Quando gli uomini del Veda scesero nel Saptasindhu, nella Terra dei Sette Fiumi, e poi nella pianura del Gange, il territorio era in gran parte coperto da foreste. Si aprirono la via con il fuoco, che era un dio: Agni. Lasciarono che disegnasse una ragnatela di cicatrici. Vivevano in villaggi provvisori, in capanne su pilastri, con muri di giunchi e tetti di paglia. Seguivano gli armenti, spostandosi sempre più verso est. Talvolta arrestandosi davanti a immense masse d'acqua. Fu quella l'epoca aurea dei ritualisti.
Allora, a qualche distanza dai villaggi e a qualche distanza gli uni dagli altri, si potevano osservare gruppi di uomini -una ventina ogni volta- che si muovevano su spazi brulli, intorno a fuochi perennemente accesi, vicino a qualche capanno. Da lontano, si udiva un brusio solcato da canti. Ogni dettaglio della vita e della morte era in gioco, in quell'andirivieni di uomini assorti. Ma non si poteva pretendere che ciò apparisse evidente agli occhi di uno straniero.
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Ben poco di tangibile rimane dell'epoca vedica. Non sussistono edifici, né monconi di edifici, né simulacri. Al più, qualche frusto reperto nelle teche di alcuni musei. Edificarono un Partenone di parole: la lingua sanscrita, poiché samskrta significa «perfetto». Così disse Daumal.
Qual era il motivo profondo per cui non vollero lasciare tracce? Il solito supponente evemerismo occidentale subito si appellerebbe alla deperibilità dei materiali in clima tropicale. Ma la ragione era un'altra - e i ritualisti vi accennarono. Se l'unico evento imprescindibile è il SACRIFICIO, che fare di Agni, dell'altare del fuoco, una volta concluso il sacrificio? Risposero: «Dopo il completamento del sacrificio, esso ascende ed entra in quello splendente [sole]. Perciò non ci si deve preoccupare se Agni viene distrutto, perché allora egli è in quel disco laggiù». Ogni costruzione è provvisoria, incluso l'altare del fuoco. Non è qualcosa di fermo, ma un veicolo. Una volta compiuto il viaggio, il veicolo può anche essere fatto a pezzi. Perciò i ritualisti vedici non elaborarono l'idea del tempio. Se tanta cura veniva dedicata a costruire un uccello, era perché potesse volare. Ciò che a quel punto rimaneva sulla terra era un involucro di polvere, fango secco e mattoni, inerte. Lo si poteva abbandonare, come una carcassa. Presto la vegetazione lo avrebbe ricoperto. Intanto, Agni era nel sole.
Il mondo si divideva in due parti, che obbedivano a regole diverse: il villaggio e la foresta. Ciò che valeva per l'uno non valeva per l'altra - e viceversa. Tutti i villaggi un giorno sarebbero stati abbandonati dalla comunità, nel lento procedere della sua esistenza seminomade. Non c'erano luoghi sacri una volta per sempre, destinati, ombelicali, come quelli dei templi. Il luogo sacro era la scena del sacrificio, che andava scelta ogni volta seguendo criteri fissi: «Oltre a stare in alto, quel luogo dovrà essere piano; e, oltre a essere piano, dovrà essere compatto; e, oltre a essere compatto,
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dovrà essere inclinato verso est, perché est è la direzione degli dèi; o altrimenti dovrebbe essere inclinato verso nord, poiché nord è la direzione degli uomini. Dovrà essere lievemente rialzato verso sud, perché quella è la direzione degli antenati. Se scendesse verso sud, il sacrificante presto passerebbe nel mondo laggiù; ma in questo modo il sacrificante vive a lungo: perciò che sia lievemente rialzato verso sud».
Alto, piano, compatto: questi i primi requisiti del luogo del sacrificio. Come se si volesse definire una superficie neutra, una tela di fondo su cui disegnare i gesti con perfetta nettezza. E l'origine della scena come luogo predisposto ad accogliere tutti i possibili significati. Quanto di più moderno - anzi, la scena stessa del moderno. In alto deve stare, innanzitutto, il luogo. Perché? Perché gli dèi abbandonarono la terra da un luogo eminente. E gli uomini devono imitarli. Compatto, poi. Perché? Perché abbia pratisthà, «fondamento». Poi il luogo deve essere inclinato verso est: anche qui, perché est è la direzione degli dèi. Ma soprattutto: lievemente rialzato verso sud, come puntando i piedi contro la direzione degli antenati. Lì stanno i morti e la morte, lì rapidamente scivolerebbero gli officianti se il terreno fosse appena inclinato verso sud. Con pochi tocchi, recingendo con lo sguardo un luogo qualsiasi, fra sterpi e sassi, è stato evocato il fondo impregiudicato di ogni azione, il primo luogo geometrico - e al tempo stesso si allude a come è fatto il mondo, si dice dove sono passati gli dèi, dove sta la morte. Che altro occorre sapere, prima di compiere qualsiasi gesto? I ritualisti erano ossessivi nelle prescrizioni, mai però bigotti.
Sul terreno del sacrificio ciò che si vede è poco. E spoglio, monotono. Ma il più di quanto avviene non si vede: è un viaggio nell'invisibile, pieno di pericoli, di angosce, minacciato da agguati, una navigazione incerta, simile a quella prediletta da Conrad, con una imbarcazione appena al di sotto di quanto esigono le forze della natura. E fu sempre un personaggio di
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Conrad a spiegare il motivo della differenza fra l'irrimediabile sciatteria nei gesti di chi abita la terra e la precisione di chi vive sul mare. Soltanto quest'ultimo sa che un gesto sbagliato, un nodo mal fatto, potrebbero significare la rovina. Mentre a terra per un gesto sbagliato si può sempre trovare un rimedio. Soltanto il mare ci priva di quel «senso di sicurezza» che induce all'imprecisione.
Anche se non dovevano avere grandi esperienze di oceani, ma piuttosto di vasti e maestosi fiumi, gli uomini vedici amavano riferirsi a un «oceano», samudrà, salilà, appena trattavano con le cose del cielo. Perché il cielo stesso era il vero oceano, la Via Lattea, che sulla terra proseguiva. E lì trovavano la prima immagine di quel continuo da cui sgorgavano tutti i gesti e le parole delle cerimonie. A quel battello, a quella navigazione pensavano, come marinai accorti e tesi, in vari momenti dei rituali, per esempio all'inizio di un certo canto: «Il canto bahispavamàna in verità è un battello diretto verso il cielo: i sacerdoti sono la sua alberatura e i suoi remi i mezzi che fanno raggiungere il mondo celeste. Se uno di loro è biasimevole, lui da solo farà affondare il battello, come uno che sale su un battello già pieno lo farebbe affondare. E infatti ogni SACRIFICIO è un battello diretto verso il cielo: perciò occorre tentare di tenere un sacerdote biasimevole lontano da qualsiasi sacrificio ».
Anche se, vista da fuori, la SCENA SACRIFICALE sembra un luogo qualsiasi, una tremenda concentrazione di forze la abita - e si fissa su pochi oggetti: sono frammenti della «folgore», vajra, quell'arma misteriosa e suprema con la quale Indra sconfisse Vrtra, l'immane mostro che tratteneva in sé le acque. Uno è la spada di legno che impugnano gli officianti. Un altro è l'elemento più terrificante, nella sua semplicità: il palo. Ma anche il carro che trasporta il riso è una potenza del sacrificio. E la freccia usata dai guerrieri ricorda lo spezzarsi del vajra mentre colpiva Vrtra. La spartizione di questi oggetti fra brahmani e ksatriya, fra sacerdoti e guerrieri, è anche una accorta divisione dei poteri fra
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le due forme di SOVRANITA' che sempre minacciano di squilibrarsi: ai brahmani spetterà la spada di legno e il palo; agli ksatriya il carro e la freccia. Due contro due: gli ksatriya più vicini alla vita di ogni giorno (la tribù in movimento e la battaglia richiedono carro e freccia); i brahmani più astratti ma non per questo più miti (la spada di legno, il palo solitario). L'oggetto più incongruo, quello più simile a un giocattolo - lo sphya, la «spada di legno» -, è assegnato al brahmano. Ma è anche l'unico dei quattro oggetti che rappresenta la folgore nella sua totalità, così come un giorno venne brandita da Indra. Solo un brahmano può impugnare la spada di legno perché essa «la folgore e nessun uomo può impugnarla: egli perciò la impugna con l'assistenza degli dèi». Quando si arriva alla massima prossimità agli dèi, lì soltanto un brahmano può agire. Mentre la storia della folgore di Indra spiega perché, sin dall'inizio, il potere non è mai integro, ma spezzato almeno in due parti, irriducibili.
La tessitura dei rapporti fra auctoritas e potestas, fra potere spirituale e potere temporale, fra brahmani e ksatriya, fra il sacerdote e il re: tema perenne e inesauribile per l'India dal Rgveda al Mahàbhàrata (che è tutto una storia di varianti e intrecci all'interno di quei rapporti), ai Puràna («Antichità»). Rapporti di complementarità e talvolta di ostilità: ma fu una lotta che non si pose mai nei termini grezzi di uno scontro fra lo spirito e la forza. Antenati dei brahmani erano i «veggenti», i rsi - e i primi fra loro, i Sette Veggenti, i Saptarsi, che risiedevano nei sette astri dell'Orsa Maggiore e disponevano di una tremenda potenza distruttiva. Erano capaci di inghiottire, disseccare, folgorare intere parti del cosmo. Gli eserciti di un re non sarebbero mai stati così devastanti come il tapas, l'ardore di un rsi.Dall'altra parte, gli ksatriya non erano avidi soltanto di potere. Più volte, soprattutto nelle Upanisad (ma anche nei Bràhmana), si incontrano ksatriya che illuminano illustri brahmani su certe dottrine estre-
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me, fino alle quali i brahmani non riuscivano a spingersi.
Enorme è il divario fra la rudimentale civiltà materiale vedica e la complessità, difficoltà e audacia dei testi. Nelle città dell'Indo si costruiva con mattoni, si predisponevano magazzini e vasti bacini per l'acqua. Fra gli uomini del Veda i mattoni erano conosciuti e usati, ma solo per essere impilati sull'altare del fuoco. Un'intera teologia si era sviluppata intorno ai «mattoni», istakà, che venivano messi in rapporto con l'«oblazione», isti. E l'edificazione stessa era innanzitutto rituale. Gli elementi della vita quotidiana non potevano essere più semplici, ma i loro significati apparivano soverchianti. Pur se ridotto al minimo, tutto era sempre troppo. Anche uno studioso cauto e scabro come Louis Renou riconosceva che «il Veda si muove in un terrore panico». All'opposto di ogni rigidezza ieratica, gli INNI gli apparivano non già come «poesie composte a "sangue freddo", ma come «OPERE FRENETICHE, DERIVANTI DA UN'ATMOSFERA DI DISPUTE ORATORIE, DOVE LA VITTORIA SI OTTIENE FORMULANDO MEGLIO (O INDOVINANDO PIU' VELOCEMENTE) GLI ENIGMI CON FONDAMENTO MISTICO-RITUALE». E DOVE LA SCONFITTA POTEVA ESSERE UNA CONDANNA A MORTE. SENZA BISOGNO DI UN CARNEFICE, LA TESTA ANDAVA IN PEZZI. I casi testimoniati non mancano. 

Conosciamo soltanto un nome - fra tutti coloro che appartennero alla civiltà dell'Indo: Su-ilisu, un interprete. Ci appare come un nano, o un bambino, in un sigillo accadico. Sta in grembo a un personaggio che indossa ricchi, pesanti paramenti. Il testo inciso sopra l'immagine dice: «Su-ilisu, traduttore di Meluhha». Altri sigilli parlano di merci provenienti da Meluhha, da quella civiltà dell'Indo che fu estesa più della Mesopotamia, dell'Egitto, della Persia e durò non meno di mille anni, estinguendosi infine, per motivi del tutto oscuri, intorno al 1600 a.C. I nomi sono scomparsi, rimane
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soltanto quello di Su-ilisu, interprete di una lingua che ancora resiste a ogni tentativo di decifrazione - ammesso che si tratti di una lingua, punto su cui ancora si disputa.
Da alcuni anni è in corso un'affannosa ricerca di ossa di cavallo da disseppellire nel Panjab. Brandite come armi improprie, dovrebbero servire a sgominare e disperdere gli aborriti Indoeuropei venuti da fuori, di là dal Khyber Pass, dimostrando che la loro novità -il cavallo - apparteneva già a quei luoghi. Perché tutto ciò che è più antico e memorabile - così qualcuno pensa - deve necessariamente crescere su terra indiana. E l'indecifrata scrittura di Harappa dovrebbe già contenere quanto basta per far intendere che da essa discendono il sanscrito e il Rgveda. Tutto questo non ha trovato fondamento nei reperti e va contro ciò che dicono i testi vedici. Il soma, qualsiasi cosa esso fosse, cresceva sulle montagne, che non appartengono al paesaggio di Harappa e Mohenjo-daro. Quanto ai guerrieri montati su carri con cavalli, non ve n'è traccia nei sigilli della civiltà dell'Indo. Rispetto al Rgveda, è difficile dissipare l'impressione che si tratti di mondi paralleli. Eppure dovettero interferire in qualche maniera. Ma è una maniera che rimane tuttora oscura.
Per l'India vedica, la storia non era cosa di cui prendere nota. Il genere storiografico vi fa la sua apparizione ben più tardi, non soltanto molti secoli dopo Erodoto e Tucidide, ma quando in Occidente si scrivevano le cronache medioevali. La cronologia a cui i ritualisti fanno riferimento è generalmente un tempo degli dèi e di ciò che accadde prima degli dèi. Soltanto in rari casi si fa riferimento a qualcosa di «antiquato», perciò tale da sottintendere il passaggio al tempo degli uomini. E immancabilmente si tratta di mutamenti all'interno di un rito. Per esempio del rito più complicato e imponente, che è Y asvamedha, il «sacrificio del cavallo»: «Queirasvamedha è, per così dire, un sacrificio antiquato, perché che cosa si celebra di esso e
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che cosa no?». Dopo aver seguito le minuziose, vertiginose istruzioni sulle centinaia di animali che vanno sacrificati nel corso dell'asvamedha e sui diversi modi in cui dovevano essere trattati, sulle perline da infilare nella criniera del cavallo e sulle «vie del coltello» che dovevano essere seguite nell'incidere la carne del cavallo, con improvviso cambiamento di rotta si dice che l'asvamedha è un sacrificio antiquato» (o «abbandonato», utsannayajna). Forse le speculazioni dei liturgisti si riferivano già a un passato favoloso e perduto, (quando l'intreccio fra i canti, i numeri e gli animali uccisi era ancora impeccabile. Forse già loro si sentivano come antiquari seicenteschi che si facevano guerre di citazioni a proposito di qualche evento inabissato. Ma, quanto più scarsi sono i riferimenti alla pura, dissolvente successione dei tempi, tanto più sconvolgente il loro effetto. E tanto più vano apparirà ogni tentativo di stabilire un rapporto immediato, semplice e univoco fra i testi dei ritualisti vedici e una qualsiasi realtà fattuale. A differenza degli Egizi, dei Sumeri, dei Cinesi della dinastia Zhou, evitarono di appendere agli anni ciò che accadeva. Verum ipsum factum non valeva per loro. Perché l'unico factum collegato a un verum era l'azione liturgica. Tutto ciò che si svolgeva prima e al di fuori del rito apparteneva al vasto regno sfrangiato della non-verità.
L'India vedica si fonda su un esclusivismo rigoroso (soltanto chi partecipa al sacrificio può essere salvato) e al tempo stesso su una esigenza di riscatto totale (esteso non solo a tutti gli uomini, ma a tutto il vivente). Questa doppia pretesa, che suonerà irragionevole per le altre grandi religioni (molto più vicine al buon senso profano), viene ribadita nell'immagine di un antico, illimitato convito: «Ma quelle creature che non sono ammesse al sacrificio sono perdute; perciò ora egli ammette al sacrificio quelle creature qui sulla terra che non sono perdute; dietro gli uomini ci sono le bestie; e dietro gli dèi ci sono gli uccelli, le piante e gli
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alberi; così, qualsiasi cosa esista qui sulla terra è ammessa al sacrificio. E in verità sia gli dèi sia gli uomini sia gli antenati bevevano insieme, è questo il loro convito; nei tempi antichi bevevano insieme visibilmente, ora lo fanno nell'invisibile».
Nulla era così grave, per gli uomini ma anche per gli dèi, come essere esclusi dal sacrificio. Nulla implicava, con altrettanto rigore, la perdita della salvezza. La vita, da sola, non bastava a salvare la vita. Occorreva una PROCEDURA, una SEQUENZA DI GESTI, una inclinazione costante per non essere perduti. E la salvezza, per risultare tale, doveva estendersi a tutto, doveva trascinare tutto dietro di sé. NON C'ERA SALVEZZA DEL SINGOLO - ESSERE O SPECIE. Dietro gli uomini si intravedevano le incalcolabili schiere delle bestie, accomunate agli uomini dalla loro natura di pasu, eventuali vittime sacrificali. Mentre dietro gli dèi stormivano tutti gli alberi e le piante, con i loro abitanti, gli uccelli, che avevano più facile accesso al cielo.
Questa grandiosa visione è offerta in poche parole -e non ha equivalente alcuno nelle altre grandi civiltà antiche. Non la testimonia nessun testo greco (e tanto meno romano), non è certo visione biblica (dove l'uomo, sin dall'inizio edenico, ha lo stigma del dominatore) e neppure cinese. SOLO I CRUDELI UOMINI VEDICI, MENTRE SI DEDICAVANO SENZA TREGUA AI LORO SANGUINOSI SACRIFICI, PENSARONO A COME SALVARE, INSIEME A LORO STESSI, GLI ALBERI, LE PIANTE E TUTTI GLI ALTRI ESSERI VIVENTI. E pensarono che, per farlo, ci fosse un solo modo: ammettere tutte quelle creature al sacrificio. Pensarono anche che fosse l'unico accorgimento per superare la sfida più dura: far sì che, nell'invisibile, proseguisse quel convito che un tempo era sotto gli occhi di tutti -e a cui tutti prendevano parte.

Chi si addentra nel corpus vedico ha presto l'impressione di trovarsi all'interno di un mondo autosufficiente e autosegregato. I vicini? gli antecedenti? la formazione? Tutto si lascia mettere in dubbio. Questo spiega un certo compiacimento perverso dei grandi vedisti
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per l'oggetto delle loro ricerche: sanno che, una volta entrati, non ne usciranno più. Un maestro come Louis Renou a questo accennava sommessamente, in una delle rare occasioni in cui si concesse di parlare in termini generali: «Un'altra ragione di questo declino dell'interesse [per gli studi vedici, si era nel 1951] è l'isolamento del Veda. Al giorno d'oggi la nostra attenzione è concentrata sulle influenze culturali e sui punti di contatto fra civiltà. Il Veda offre pochi materiali del genere, perché si è sviluppato in uno stato di separazione. Eppure, in realtà forse è più importante cominciare a studiare certe manifestazioni individuali in e per sé, ed esaminare la loro struttura interna». Ma questo è esattamente ciò che già faceva, in pieno Ottocento, Abel Bergaigne, capostipite della gloriosa dinastia dei vedisti francesi: studiare il Rgveda come un mondo in se compiuto, che trova giustificazione soltanto in se stesso. Studio inesauribile, come ben sapeva lo stesso Renou, che avrebbe pubblicato diciassette volumi delle sue Etudes védiques et paninéennes, dove traduceva e interpretava, via via, gli inni del Rgveda, affrontandoli ogni volta dagli angoli più diversi, ma senza che l'impresa si concludesse. Né l'Egitto, né la Mesopotamia, né la Cina, né tanto meno la Grecia (con la sua provocatoria mancanza di testi liturgici) possono offrire qualcosa di neppur lontanamente paragonabile al corpus vedico, per il rigore dell'impianto formale, l'esclusione di ogni quadro temporale - storico, annalistico -, l'invadenza della liturgia, infine per la raffinatezza, foltezza e capziosità dei collegamenti interni, fra le varie parti del corpus.Molteplici e vociferanti sono sempre state -e continuano a essere- le teorie sulle origini e la provenienza di coloro che si definivano Arya e composero il corpus vedico. Ma l'enormità e l'unicità della loro impresa testuale spicca ancor più se della loro esistenza storica si dà una descrizione ridotta ai pochi elementi indubitabili, come quella che formulò una volta Frits Staal: « Più di tremila anni fa, piccoli gruppi di popoli seminomadi attraversarono le regioni montuose che sepa-
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rano l'Asia centrale dall'Iran e dal subcontinente indiano. Parlavano una lingua indoeuropea, che si sviluppò nel vedico, e importarono i rudimenti di un sistema sociale e rituale. Come altri che parlavano lingue indoeuropee, celebravano il fuoco, chiamato Agni, e come i loro parenti iranici adottarono il culto del soma - una pianta, forse allucinogena, che cresceva in alta montagna. L'interazione fra questi avventurieri centroasiatici e i precedenti abitanti del subcontinente indiano diede origine alla civiltà vedica, così chiamata per via dei quattro Veda, composizioni orali tramandate a voce sino a oggi». Nella loro secchezza e nel tono che sembra adattarsi alle esigenze di una enciclopedia popolare, queste righe di Staal trasmettono qualcosa di quello stupore che dovrebbe cogliere chiunque dinanzi all'impresa senza precedenti e senza paralleli di questi (poco numerosi) «avventurieri centroasiatici». Impresa che fin dall'inizio non puntava tanto su conquiste territoriali (non precisabili, non impressionanti e non sostenute da una forte compagine politica, mancando persino l'invenzione della «città», nagara, termine che è quasi assente dai testi più antichi - e comunque non corrisponde ad alcun dato documentabile: non esiste traccia di alcuna città vedica), ma su un culto, strettamente connesso a testi di estrema complessità, e su una pianta dell'ebbrezza. Uno stato della coscienza diventava il perno attorno a cui ruotavano, in una meticolosa codificazione, migliaia e migliaia di atti rituali. La mitologia, e così anche le speculazioni più temerarie, si presentavano come una conseguenza dell'incontro fatale e dirompente fra una liturgia e l'ebbrezza.

Ya evam veda, «colui che sa così», è una formula sempre ricorrente nel Veda. Evidentemente il sapere - il sapere così, in un certo modo che si differenziava da ogni altro sapere- era ciò che più premeva agli uomini vedici. La potenza, la conquista, il piacere apparivano come elementi subordinati, che facevano parte del sa-

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pere, ma certamente non avrebbero potuto soppiantarlo. Il lessico vedico è sottilissimo e altamente differenziato nel definire tutto ciò che ha a che fare con il pensiero, l'ispirazione, l'esaltazione. Praticavano il discernimento degli spiriti - avrebbe detto qualche mistico occidentale, parecchi secoli più tardi - con una sicurezza e un'acutezza che lasciano stupefatti e obbligano alla goffaggine i tentativi di traduzione. Che cos'è dhiì? Pensiero intenso, visione, ispirazione, meditazione, preghiera, contemplazione? Volta a volta, tutto questo. E in ogni caso il presupposto era lo stesso: il PRIMATO DELLA CONOSCENZA rispetto a ogni altra via di salvezza.

Perché gli uomini vedici erano così OSSESSIONATI DAL RITUALE? Perché tutti i loro testi, direttamente o indirettamente, parlano di LITURGIA? Volevano pensare, volevano vivere soltanto in certi stati della coscienza. Scartato ogni altro, questo rimane l'unico motivo plausibile. VOLEVANO PENSARE - e soprattutto: VOLEVANO ESSERE COSCIENTI DI PENSARE. Questo avviene esemplarmente nel COMPIERE UN GESTO. C'è il gesto - e c'è l'attenzione che si concentra sul gesto. L'ATTENZIONE TRASMETTE AL GESTO IL SUO SIGNIFICATO.

Anche la Roma arcaica era una società altamente rituale, ma non giunse mai a una simile radicalità. SOVRAORDINATA AL RITO, A ROMA, ERA LA PRATICA,  la capacità di sbrogliare le situazioni che via via si presentavano. Così IL RITO CONFLUI' NELL'ALVEO DEL DIRITTO, IL FAS FU ASSORBITO - o almeno si provò ad assorbirlo - nello IUS. Per gli uomini vedici, diversamente, LA CONCENTRAZIONE DEL PENSIERO NEL GESTO fu altissima - e priva di funzioni ulteriori. Pensare il brahman, che è l'estremo di tutto, significa essere il brahman. Questa la dottrina sottintesa.

Quanto più infuriano le dispute sulla secolarizzazione, tanto più facilmente si dimentica che l'Occidente, se così si vuole chiamare qualcosa che è nato in Grecia, secolare è stato sin dall'inizio. Sprovvisti di una

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classe sacerdotale, abbandonati al rischio continuo di essere tagliati fuori dalla luce, senza prospettiva di premi e riscatti in altri mondi, i Greci furono i primi esseri totalmente IDIOSINCRATICI. Questo vibra in ogni verso di Saffo o di Archiloco. E ciò che è IDIOSINCRATICO agisce come il nerbo stesso della secolarità. Come spiegare, allora, l'invalicabile distanza fra i moderni e i Greci antichi? I Greci sapevano chi erano e che cosa erano gli dèi. Più che credere agli dèi, li incontravano. Per i Greci, àtheos era innanzitutto chi è abbandonato dagli dèi, non chi si rifiuta di credergli, come rivendicano fieramente i moderni. I quali comunque non riescono a fare a meno di modellare le loro istituzioni secolari usando categorie teologiche. Ma, se iniettato clandestinamente nella secolarità, il sacro diventa sostanza venefica.
Specularità fra India vedica e Grecia arcaica. In India: tutti i testi sono sacri, liturgici, di origine non umana, custoditi e trasmessi da una classe sacerdotale (i brahmani). In Grecia: tutti i testi sono secolari, spesso attribuiti ad autori, trasmessi al di fuori di una classe sacerdotale, che non sussiste in quanto tale. Agli Eumolpidi, dinastia che sovrintendeva ai Misteri di Eleusi, non era affidata alcuna composizione di testi. Quando certe figure convergono -come nel caso di Elena e dei Dioscuri, che trovano corrispondenze impressionanti nelle storie di Saranyu e degli Asvin-, quell'affinità è il segnale che ci avviciniamo a qualcosa che è inestirpabile dall'esperienza di ogni mente. Sono tutte storie che ruotano attorno al simulacro (àgalma, eidolon), al riflesso (chayà) e alla copia (la somiglianza gemellare). Storie intorno alle storie, perché le storie sono tessute di simulacri e di riflessi. E' la materia mitica che riflette su se stessa, così come, negli inni del Rgveda, i rsi usavano spesso parlare dei versi che stavano componendo. Sono momenti in cui i molteplici, vorticosi fiumi delle storie sembrano sfociare nello stesso oceano, quello che diede il titolo a una raccolta di racconti che sono le Mille e una notte dell'India: il Kathàsaritsàgara, l'Oceano dei Fiumi delle Storie.
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Per paura di essere accusati di presentarli come biondi Ariani predatori, non pochi fra gli studiosi recenti hanno attenuato e smussato, per quanto potevano, l'immagine degli uomini vedici. Ora non sono più conquistatori che irrompono dalle montagne e mettono a ferro e fuoco il regno degli autoctoni, soggiogandoli crudelmente. Ora sono un gruppo di emigranti che, alla spicciolata, filtrano in terre nuove senza quasi incontrare resistenza, perché la precedente civiltà dell'Indo si è già estinta, per cause non accertabili. Correzione doverosa, corrispondente ai magri dati archeologici, ma talvolta sospettabile di un eccesso di zelo. E, per cancellare ogni incongruo scrupolo, basterà ricordare, nelle parole di Michael Witzel, che «i nazisti hanno perseguitato e assassinato a centinaia di migliaia proprio gli unici veri Ariani d'Europa, gli zingari (Rom, Sinti). E ben noto che parlano una lingua arcaica neoindiana, che è strettamente imparentata con il dardi, il panjabi e lo hindi moderni».
Forse gli Arya non si gettarono in conquiste devastatrici, ma per lo meno nel regno delle immagini esaltarono il turbine dei loro cavalli e dei loro carri da guerra, ignoti nelle terre dell'Indo. Come in una nube di pulviscolo luminoso, li precedeva la schiera dei Marut, i «rombanti figli di Rudra». Così li evocavano gli inni del Rgveda: «Arrivate, o Marut, con i vostri carri fatti di folgori, provvisti di canti, provvisti di lance, con i cavalli come ali! Volate verso di noi come uccelli con la bevanda suprema, voi dalle belle magie!»; «La terra trema di paura davanti al loro impeto: come una nave troppo carica, beccheggiando»; «Perfino la vasta montagna ha preso paura, perfino il dorso del cielo freme quando infuriate. Quando voi Marut ondeggiate armati di lance, correte come acque nella stessa direzione». Difficile pensare a coloro che cantarono le imprese dei Marut come a miti pastori seminomadi, preoccupati soltanto dei loro armenti e delle loro transumanze. Fulgore e terrore procedevano insieme a loro, quando li accompagnavano i Marut, con le loro lance scintillanti sulle spalle, trapunti di ornamenti variegati, con
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monete d'oro fissate al petto, uniti, compatti, come fossero tutti un parto simultaneo del cielo.
Quando Louis Renou pubblicò, nel 1938, le sue prime traduzioni del Rgveda, come epigrafe all'Introduzione pose alcune parole di Paul-Louis Couchoud: «La poesia era fuori strada, diceva [Mallarmé] con un sorriso, "a partire dalla grande deviazione omerica". E se gli si chiedeva che cosa c'era mai prima di Omero, rispondeva: "L'orfismo". Gli inni vedici ... hanno a che fare con l'orfismo mallarmeano». Nel corso dell'Introduzione Renou non riprendeva il tema e non tornava a nominare Mallarmé. Ma le epigrafi sono il locus electionis dei pensieri latenti. Quello era il punto adatto per insinuare che la storia della poesia non si era conclusa con Mallarmé, bensì mallarmeana era nata. «La spiegazione orfica della Terra», definizione ultima della poesia secondo Mallarmé, non si applica tanto ai tardi inni orfici, ma eminentemente agli inni vedici, dei quali, a distanza di poche strade dalla rue de Rome, Abel Bergaigne stava già dipanando la sterminata matassa di immagini. Per avvertire la risonanza mallarmeana basta aprire a caso gli inni, per esempio all'inizio di 4, 58, inno al ghrtà, il burro chiarificato che si usa nei riti. Così traduceva Renou nel 1938: «Dall'oceano è sorta l'onda del miele: con lo stelo del soma ha assunto la forma dell'ambrosia. Ecco il nome segreto del burro: lingua degli dèi, ombelico dell'immortale».
Per un Occidentale addestrato alla filologia, difficile pensare qualcosa di più frustrante della storia indiana. Sabbie mobili in ogni direzione. Date e dati sempre incerti. Qui oscillano i secoli come altrove oscillano i mesi. Nessun passaggio è stringente. Come accadde che dal Rgveda si passò ai Bràhmana? E come dai Bràhmana alle Upanisad? E come dalle Upanisad ai Sùtra? Ogni genere letterario si delinea già nel precedente. O altrimenti si oppone al precedente. O anche -e
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questo è il caso più urtante - i due generi convivono. Come districare questo groviglio? O almeno: come avvicinarsi alla sua zona più fitta? La via che conduce più lontano rimane quella autoreferenziale. Il Rgveda si capisce attraverso il Rgveda - e nient'altro (così in Bergaigne e in Renou). I Bràhmana si capiscono attraverso i Bràhmana - e nient'altro (così in Levi e in Minard). Mentre il passaggio dal Rgveda ai Bràhmana rimane ancora terra ignota o scarsamente frequentata. Come se intendere Omero rendesse impossibile intendere Platone - e all'inverso. Mentre è inevitabile vedere la Grecia intera come tensione fra Omero e Platone.
Se contemplato dall'osservatorio dei Lumi, il Veda è notte integra, compatta, priva di accenni a una qualche inclinazione a lasciarsi schiarire. E un mondo autosufficiente, dalle tensioni forti, anche convulse, assorto in se stesso, privo di curiosità per qualsiasi altra maniera di esistere. Solcato da desideri disparati e violenti, non è avido di oggetti, di sudditi, di pompe. Se si cerca un emblema di ciò che è radicalmente estraneo al moderno (comunque venga definito) e che possa fronteggiarlo con piena indifferenza, lo si troverà negli uomini vedici.
Nella Premessa alla prima edizione (1818) del Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer scriveva: «L'accesso ai Veda apertoci dalle Upanisad è, ai miei occhi, il più grande privilegio che questo secolo ancora giovane possa mostrare rispetto ai precedenti». Parole cariche di implicazioni: in rapporto al secolo appena concluso, la nuova epoca disponeva, secondo Schopenhauer, di un prodigioso sovrappiù, dovuto a un singolo libro, la fortunosa edizione di alcune Upanisad, tradotte in latino da una versione persiana e pubblicate da Anquetil-Duperron nel 1801-1802 sotto il titolo Oupnek'hat, e lette poi da Schopenhauer nell'edizione del 1808. Bastava quel solo testo per sbilanciare il sapere in favore dell'Ottocento.
Dettagli che aiutano a capire la stranezza, l'irriducibile singolarità vedica: il primo commento completo

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al Veda che possediamo è quello di Sàyana, che risale al quattordicesimo secolo. Come se il primo commento aOmero per noi disponibile fosse stato scritto duemilacento anni dopo 1'Iliade.
Fra gli elementi: il fuoco, l'acqua; fra gli animali: la vacca, il cavallo, il capro; un «oceano», samudrà, che può essere celeste, terrestre, mentale, senza che siano accertabili i confini di ciascuno; la parola, l'eros, la liturgia; rocce, montagne; ornamenti nelle vesti, nel corpo; drappelli di guerrieri, recinti abbattuti, clangore dì armi.
Di questo -e di poco altro- è fatto il mondo circo­stante per il Rgveda. Alcune parole-cardine, sempre ricorrenti. Un'illusoria, tenace monotonia. Eppure da ciascuna di quelle parole si dirama una profusione di significati, in vasta parte cifrati. Padà, l'orma della vacca, secondo il dizionario vedico di Grassmann è anche, nell'ordine: «passo», «impronta», «traccia», «soggiorno», «regione», «piede (metrico)». Ma si può aggiungere: «raggio», «parola (isolata)», infine «parola». Se si parla del «padà nascosto», Renou dice che è «l'arcano per eccellenza, di cui il poeta cerca la rivelazione». E già si è precipitati molto lontano dall'orma della vacca, che però è essa stessa misteriosa e venerabile, se le viene dedicata una speciale «libagione sull'orma», padàhuti.

All'inizio c'era un re muto, Màthava di Videha, che teneva in bocca il fuoco, detto Agni Vaisvànara, Agni-di-tutti-gli-uomini, quella forma di Agni che ogni essere vivente ospita dentro di sé. Accanto a lui, ombra perenne, un brahmano, Gotama, che lo provocava, prima con le sue domande, che rimanevano senza risposta, poi con le sue invocazioni rituali, a cui il re, secondo la liturgia, avrebbe dovuto rispondere. E il re taceva sempre, per paura di perdere il fuoco che stava nella sua bocca. Ma alla fine le invocazioni del brahmano riuscirono a stanare il fuoco, a farlo erompere nel mondo: «Egli [il re] non fu in grado di trattenerlo. Quegli
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[Agni] eruppe dalla sua bocca e cadde su questa terra». E, dal momento in cui Agni cadde sulla terra, cominciò a bruciarla. Il re Màthava si trovava allora lungo il fiume Sarasvati. Da quel punto Agni cominciò a bruciare la terra verso est. Segnava una pista - e il re e il Brahmano lo seguivano. Rimaneva una curiosità, nella mente del brahmano, così domandò al re perché Agni era precipitato dalla sua bocca quando aveva udito una certa invocazione e non prima. Il re rispose: «Perchè in quella invocazione si menzionava il burro chiarificato - e Agni ne è ghiotto». Quella fu l'astuzia fondatrice, per il brahmano. L'atto iniziale della storia non è dunque del sovrano, dello ksatriya, del guerriero. E' un atto che spetta al brahmano, a colui che accende ogni evento, che obbliga il fuoco a uscire dal suo rifugio. Ciò che accade subito dopo è un rapinoso compendio di quello che poi sarebbe sempre accaduto: l'uomo segue la pista del fuoco, che lo precede scorticando la terra. Questo è la civiltà, innanzitutto: una pista tracciata dalle fiamme. E non è il caso di pensare che un desiderio o la rapacità umana prendano il sopravvento, nell'ebbrezza della conquista. Gli uomini sempre seguono, chi conquista è Agni.
Benefica era stata l'accortezza del brahmano Gotama. Con le sue formule ammalianti - ma soprattutto con la pura menzione del burro chiarificato, ghiotto cibo per Agni, egli era riuscito ad avviare il rito, che a sua volta aveva messo in moto la storia. Ma quella storia aveva un precedente, che risaliva al periodo delle inesauribili contese fra i Deva e gli Asura. Una volta accadde che gli Asura, arroganti, «continuavano a sacrificare nella propria bocca», mentre i Deva preferivano sacrificare gli uni agli altri. A quel punto il loro padre, Prajàpati, elesse i Deva e affidò a loro il sacrificio. Li preferì perché, prima ancora di sapere con precisione a chi dovevano offrire, avevano accettato che l'offerta fosse qualcosa di esterno, che passava da un essere a un altro, rompendo la membrana dell'autosufficienza, ricordo del corpo informe di Vrtra, il mostro primordiale.
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Se si fosse chiesto agli uomini vedici perché non fondarono città, né regni, né imperi (anche se concepirono città, regni, imperi), avrebbero potuto rispondere: Non cercavamo il potere, ma l'ebbrezza - se ebbrezza è la parola che più si approssima all'effetto del soma. Che descrissero così, con parole immediate: «Ora abbiamo bevuto il soma, siamo diventati immortali, abbiamo raggiunto la luce, abbiamo trovato gli dèi. Che cosa può farci ora l'odio e la malizia di un mortale?». Nulla di più, ma anche nulla di meno volevano gli uomini vedici. Costruirono uno sterminato edificio di gesti e di formule per arrivare a poter dire quelle poche parole. Erano l'origine e la fine. Per chi ha raggiunto questo, palazzi, regni e vasti sistemi amministrativi sono più un ostacolo che una conquista. Ogni gloria umana, ogni fierezza di conquistatori, ogni avidità di piacere: non erano che un intralcio. E l'ebbrezza donata dal soma non era uno stato esaltante ma incontrollabile. Perché del soma dicevano: «Tu sei il guardiano del nostro corpo, o soma; in ogni membro tu ti sei insediato come custode». L'ebbrezza era un guscio protettivo, che poteva in ogni momento essere infranto, ma soltanto per la debolezza del singolo. Il quale allora si rivolgeva a quella sostanza che era anche un re, chiedendogli grazia, come a un sovrano benevolo: «Se infrangiamo il voto, perdonaci come buoni amici, o dio, per il nostro bene». Questa familiarità fisiologica con il divino faceva sì che il soma, irrorando il corpo, lo sostenesse. Neppure i Greci, esperti di ebbrezza, avrebbero osato far confluire la possessione e il supremo controllo in uno stesso stato, concesso da quelle «bevande gloriose» e «salvatrici», di cui si dice: «Come i finimenti il carro, così voi tenete insieme le mie membra». E quale sarà l'ultimo desiderio, che ora sembra quasi a portata di mano? La vita infinita: «O re Soma, prolunga i nostri giorni come il sole le giornate di primavera». Delicatezza, lucidità: l'infinito si presenta come una graduale, impercettibile espansione del dominio della luce.

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II. YAJNAVALKYA


Qualche tempo prima dell'epoca del Buddha - nessuno potrebbe dire con certezza quando - si staglia la figura di Yàjnavalkya. Il sacrificio (yajna) è nel suo nome, ma non altrettanto chiaro è il senso di -valkya. Aveva ricevuto la sua dottrina dal Sole, Aditya. Per sapere occorre ardere. Altrimenti ogni conoscenza è inefficace. Perciò occorre praticare l'«ardore», tapas. E il Sole è l'essere che più di ogni altro arde. A lui è naturale rivolgersi, per attingere la dottrina. Nei testi più antichi, ovunque Yàjnavalkya appaia, parla poco e per ultimo. La sua parola è tagliente, definitiva. Scontrarsi con lui, una prova temibile. Anche l'«accorto» Sàkalya, che Staal ha definito «il primo grande linguista nella storia dell'uomo» perché fissò la versione Padapàtha del Rgveda - quella che tutt'oggi leggiamo, con parole separate -, dovette patirne le conseguenze. Non riuscì a rispondere a un quesito di Yàjfiavalkya e la sua testa andò in pezzi. Le ossa vennero raccolte da predoni, che non sapevano a chi erano appartenute.
Yàjnavalkya si fa avanti ogni volta in situazioni insidiose. Sembra che ami la provocazione e la sfida. Un

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giorno fu il re Janaka del Videha che volle mettere Yàjnavalkya in difficoltà. Ma non riuscì a sopraffarlo:
«Janaka del Videha una volta interrogò Yàjnavalkya: "Conosci l'agnihotra, Yàjnavalkya?". "Lo conosco, o re" egli disse. "Che cos'è?". "E latte".
«"Se non ci fosse latte, con che cosa sacrificheresti?". "Con riso e orzo". "Se non ci fossero riso e orzo, con che cosa sacrificheresti?". "Con altre erbe che ci fossero in giro". "Se non ci fossero altre erbe in giro, con che cosa sacrificheresti?". "Con le erbe della foresta che trovassi". "E se non ci fossero erbe della foresta, con che cosa sacrificheresti?". "Con i frutti degli alberi". "E se non ci fossero i frutti degli alberi, con che cosa sacrificheresti?". "Con l'acqua". "Se non ci fosse acqua, con che cosa sacrificheresti?".
«Egli disse: "Allora qui non ci sarebbe più nulla, eppure si farebbe offerta della verità (satya) nella fiducia (sraddhà)". "Conosci l'agnihotra, Yàjnavalkya: ti do cento vacche" disse Janaka».
Quel giorno il re Janaka aveva dovuto spingere Yàjnavalkya sino alla difficoltà estrema. Per farlo, aveva preso spunto dal rito più semplice, l'agnihotra: puro atto del versare latte nel fuoco. Voleva scoprire che cosa sarebbe rimasto se anche gli elementi più comuni fossero venuti meno. Era un artificio per mettere allo scoperto il procedimento inarrestabile che opera in ogni offerta. Yàjnavalkya isolò subito i due punti essenziali di ogni atto sacrificale: la sostituzione e la trasposizione dal visibile all'ordine della mente. Il quale a sua volta veniva ridotto ai suoi termini ultimi, oltre i quali non si dà più la coppia della sostanza da offrire e dell'agente che consuma tale sostanza (il latte e il fuoco dell' agnihotra). Quei due termini erano satya, «verità», quindi qualcosa che non apparteneva sin dall'inizio alla vita degli uomini («gli uomini sono la non-verità»), ma doveva essere conquistato perché essi potessero trovarsi nella condizione di offrire qualcosa; e sraddhà, «fiducia», in particolare fiducia nell'efficacia del rito, sentimento senza il quale l'intero edificio del pensiero si abbatte. Soltanto sraddhà può sostituirsi al fuoco, perchè sraddhà è fuoco. Sraddhà è l'assioma vedico: la convinzione, non dimostrabile ma sottintesa in ogni atto, che il visibile agisca sull'invisibile e, soprattutto, che l'invisibile agisca sul visibile. Che il regno della mente e il regno di ciò che è palpabile comunichino continuamente. Non avevano bisogno di fede, se non in questo senso. Da quel punto discendeva tutto il resto. Occorreva Yàjnavalkya per dirlo con tale icasticità.
Re celebre per la sua magnanimità e il suo sapere, Janaka rimase appagato dalle risposte di Yàjnavalkya siili agnihotra. Al punto che, secondo la versione del Jaiminiya Bràhmana, «diventò suo discepolo». Con umiltà, disse a Yàjnavalkya: «Istruiscimi». La situazione si era rovesciata. Ora chi poneva domande sarebbe stato Yàjnavalkya, il quale volle intervenire, come un chirurgo, esattamente sulla giuntura che non teneva, nel sapere di Janaka. Eppure quel sapere era imponente, con alta benevolenza, Yàjnavalkya descriveva Janaka come qualcuno che, prima di lanciarsi in un lungo viaggio, «si munisce di un carro o di un battello». Questo erano per lui le upanisad, le «connessioni segrete» che aveva raccolto perché lo facessero procedere nel lungo viaggio della conoscenza. Non risulta che ad alcun altro Yàjnavalkya abbia rivolto un simile omaggio. Ma, pur così carico di potere e di sapere, Janaka giungeva a un punto dove le «connessioni segrete» non lo soccorrevano più. Esattamente su quel punto Yàjnavalkya volle interrogarlo. D'improvviso - come era nel suo stile - gli chiese: «Quando sarai liberato da questo mondo, dove andrai?». Con pari franchezza, Janaka rispose: «Non so dove andrò, mio signore».
E uno scambio di battute che dissipa una volta per sempre ogni visione bigotta dell'India vedica. Qui il re sapiente, Janaka, riconosce di essere perso e ignaro, come tutti, nel momento in cui lascia il mondo. Del quale è possibile liberarsi (ossessione indiana, come lo sarà la «salvezza» per i cristiani), ma non necessariamente sapendo dove si va. Yàjnavalkya a que-
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sto punto offre, all'interno di una Upanisad, un sapere che va al di là delle upanisad (nel senso di «connessioni segrete»).
Per chiarire dove si va dopo la morte, Yàjnavalkya non menziona né la vita né la morte. Con improntitudine, come se le sue parole fossero una risposta puntuale, dice: «Indha [il Fiammeggiante] è il nome di quella persona (purusa) nell'occhio destro; in verità è indha, ma lo si chiama Indra per coprire il nome vero. Gli dèi infatti amano il segreto e avversano ciò che è palese». L'ultima frase è la clausola che rintocca innumerevoli volte nei Bràhmana, con la funzione di avvertire che si sta varcando la soglia dell'esoterico. E l'esoterico è tale innanzitutto perché gli dèi lo amano, a differenza di ciò che subito appare alla vista. E questa la risposta indiana - anticipata di molti secoli - a quell'«odio del segreto» su cui, secondo Guénon, si sarebbe fondato l'Occidente. Qui Yàjnavalkya ci dà una dimostrazione fulminea di ciò che possa essere il segreto. Per annunciare che cosa avviene dopo la morte, non descrive una terra o un cielo di vita perenne. Ma parla di fisiologia. Parla di quella minuscola figura che si vede riflessa nella pupilla di chiunque. E la definisce «persona», purusa, essere di cui già nella stessa Brhadàranyaka Upanisad si era detto: «L'àtman, il Sé, esisteva da solo all'inizio sotto forma di Purusa». In questo caso il re degli dèi, Indra, è una copertura per un altro personaggio, il misterioso Indha, il Fiammeggiante. Il quale ha una compagna, Viràj (nome di un metro e paredra di Purusa). Ma perché queste due minuscole figure riflesse dovrebbero rivelarci che cosa accade dopo la morte? Perché sono allacciate in un coito lunghissimo e sempre rinnovato nello spazio all'interno del cuore: caverna protettiva. E di che cosa vivono? «Il loro cibo è la massa rossa all'interno del cuore». Qui, come una cuspide, la metafisica penetra nella fisiologia. Il coito di Indra e Viràj è la veglia - e lo stato che regna alla fine del coito è il sonno: «Perché, come qui, quando si giunge alla fine di un coito umano egli diventa, per così dire, insensibile, così allora e-
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gli diventa insensibile; perché questa è un'unione divina, e questa è la felicità suprema». Le due figure riflesse nei due occhi sono servite a Yàjnavalkya per addentrarsi nella cavità del Sé e sorprenderlo nella sua costante e sdoppiata attività erotica, che è la mente stessa. E da qui Yàjnavalkya si innalza subito all'apice della teologia negativa: «Quanto all'àtman, al , non si esprime se non per negazioni: inafferrabile, perché non lo si afferra; indistruttibile, perché non si distrugge; distaccato, perché non si attacca; privo di legami, nulla lo scuote, nulla lo ferisce. Veramente, Janaka, sei giunto alla non-paura (abhaya)» (e qui risuona la parola che designerà la mudrà della mano sollevata all'altezza della spalla: il gesto che più di ogni altro è peculiare del Buddha).
Occorre misurare l'audacia della risposta di Yàjnavalkya. Poiché parla a qualcuno che sa già molto, ma a cui manca un ultimo passo della conoscenza, non ritiene opportuno ricorrere a parole rassicuranti, né promettere alcunché. Yàjnavalkya ha bisogno soltanto di accennare a un dato fisiologico - la figura riflessa nella pupilla - per derivarne la rivelazione di qualcosa che avvolge il tutto: il Sé come potenza inscalfibile che agisce senza interruzione in ogni vivente, anche se non ne è percepito. Non c'è bisogno d'altro per accedere alla «non-paura», che è l'unica forma della pace. Appena lo ebbe ascoltato, Janaka disse a Yàjnavalkya: «Che rabhaya, la non-paura, la pace sia con te, Yàjnavalkya».
In due opere smisurate dell'India il presunto autore è anche un personaggio dell'opera stessa. Così Vyàsa per il Mahàbhàrata, così Yàjnavalkya per lo Satapatha Bràhmana. Nel caso di Vyàsa è impossibile accertarne una identità storica; nel caso di Yàjnavalkya, pressoché impossibile. Ma ugualmente necessaria è la loro apparizione come personaggi. L'autore è un attore che passa sulla scena e poi scompare, come tanti altri. E al tempo stesso è l'occhio dietro al quale non ve n'è alcun al-
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tro, l'occhio che lascia scorrere tutto davanti all'occhio di quell'essere senza nome che ascolta, che legge.
Come si comportò Janaka, quando Yàjnavalkya gli ebbe mostrato in poche parole - e solo riferendosi alla figura che si vede riflessa nella pupilla - che cosa accade dopo la morte? La Brhadàranyaka Upanisad lo racconta subito dopo: «A quel tempo Yàjnavalkya andò da Janaka del Videha con l'intenzione di non parlare». Magnifico incipit, intonato ancora una volta al carattere irto di Yàjnavalkya. Ma Janaka ricordava che in un'altra occasione, quando avevano disputato sull'agnihotra, Yàjfiavalkya gli aveva concesso un vara, una «grazia» : la licenza di esprimere un desiderio che si è tenuti a esaudire (le storie indiane - e per prima il Mahàbhàrata -tendono a essere storie di intrecci tra grazie e maledizioni, come il Ring di Wagner). Ora si era giunti al momento di formulare quel desiderio: che fu di continuare a interrogare Yàjnavalkya.
Avvenne allora qualcosa di sorprendente: il rsi che non aveva voglia di parlare, il rsi che spesso si manifestava con battute caustiche e affilate, e subito passava oltre, chiudendosi nel silenzio, quella volta parlò a lungo, con grandiosa eloquenza, come obbedendo a uno slancio indominabile. Ed espose finalmente in dettaglio la dottrina dell'àtman, con le parole più intense e travolgenti. Mai più, nella storia indiana, neppure nell'insegnamento di Krsna ad Arjuna nella Bhagavad Gita, la dottrina avrebbe trovato parole così luminose. Ci fu anche un momento in cui Yàjnavalkya ebbe l'impressione di essere andato troppo oltre. Allora pensò: «Questo re è abile, mi ha spodestato di tutte le mie dottrine ultime».
Se Yàjnavalkya volle concedere una «grazia» a Janaka del Videha dopo aver disputato sull'agnihotra, aveva una solida ragione. Perché quella volta Janaka si era dimostrato più forte di tre brahmani - uno dei quali
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era Yàjnavalkya stesso. Dopo averli interrogati era ripartito sul suo carro: fiero, beffardo, insoddisfatto. I tre brahmani sapevano di non essere stati all'altezza del compito. «Dissero: "Questo re ci ha battuto: su, sfidiamolo in una disputa"». A questo punto Yàjnavalkya si era fatto avanti e li aveva fermati, con parole ben ponderate. Se infatti avessero vinto - disse -, la cosa non avrebbe fatto impressione. E normale che i brahmani sconfiggano un re in una disputa teologica. E quasi la loro ragion d'essere. Ma se per caso avesse vinto Janaka? Meglio non pensarci... Il mondo si sarebbe capovolto. Così Yàjnavalkya preferì raggiungere Janaka da solo e, con umiltà, gli chiese che cosa sapeva dire dell' agnihotra. Scoprì così che Janaka sapeva molto. Fu allora che gli offrì una «grazia» - e Janaka chiese di poterlo interrogare ancora. «Da allora in poi Janaka fu brahmano».
Se tutta la storia antica dell'India è storia di lotte, sopraffazioni, insidie fra brahmani e ksatriya, la vicenda di Yàjnavalkya e Janaka può essere considerata il modello opposto, come esempio di tensione armoniosa. Janaka è sempre attratto da Yàjnavalkya, sa che il brahmano possiede una conoscenza superiore - ed è pronto a cedergli tutto. Ma al tempo stesso Janaka è il guerriero capace di misurarsi con i brahmani non solo da pari a pari, ma talvolta sopravanzandoli nella dottrina, come accade nel caso dell' agnihotra. Solo allora Yàjnavalkya riconoscerà che l'equilibrio è cambiato e gli concederà una grazia. E solo quando dovrà soddisfare quella grazia accetterà di esporre la dottrina con una magnanimità che non aveva mai mostrato prima, procedendo in uno stato di ebbrezza lucida, passando dalla prosa al verso e dal verso alla prosa, moltiplicando i dettagli, profondendo immagini. Quell'insegnamento farà diventare brahmano Janaka. Non il rapporto fra Platone e Dionigi - forzato e infausto sin dall'origine -, ma quello fra Yàjnavalkya e Janaka è l'unica immagine convincente che ci sia stata trasmessa di un rapporto felice, quindi efficace, tra il filosofo e il potente.

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I riti facevano sorgere continui motivi di disputa - e così accadeva che si ricorresse al giudizio di Yàjnavalkya. Si trattava di dispute che potevano essere al tempo stesso metafisiche, psicologiche e sessuali. Per esempio: dove appoggiare il burro che si usava per l'oblazione alle mogli degli dèi? Se il burro veniva deposto sull'altare, le mogli degli dèi si trovavano a essere separate dagli dèi stessi, i quali stavano accovacciati e assorti attorno all'altare. Il sacrificante cauto, che non voleva creare dissapori fra le coppie divine, si premurava allora di deporre il burro un poco a nord dell'altare, su una linea tracciata con la spada di legno, in modo che le mogli degli dèi continuassero a stare accanto ai loro mariti. Ma c'erano anche ritualisti meno timorosi e più sbrigativi, devoti alla metafisica più che alla tranquillità coniugale degli dèi. Eminente fra questi fu Yàjnavalkya. Ogni volta, le sue parole puntavano dritte al bersaglio. Ricordava certi maestri zen della pittura cinese, che emanano una forza fisica a stento trattenuta e guardano il mondo come fosse una foglia secca.
A lungo alcuni ritualisti avevano tormentato Yàjnavalkya chiedendogli dove occorresse deporre il burro, per non creare turbolenze fra gli dèi e le loro mogli. Yàjnavalkya capiva benissimo che la preoccupazione del sacrificante non era tanto per gli dèi, quanto per la propria moglie, che si sarebbe anch'essa sentita esclusa, per ovvia imitazione delle mogli degli dèi. Una moglie che si sente esclusa è sempre pericolosa. Comincia col sentirsi insoddisfatta del marito. E poi, chissà, può approfittare di quella separazione per cercarsi altri uomini. Yàjnavalkya sapeva tutto questo. E volle rispondere con insolenza, mettendo il dito sulla piaga: «Che importa se sua moglie [del sacrificante] va con altri uomini?». Perché una tale bruschezza? Come sempre accadeva con Yàjnavalkya, il tagliare corto serviva a ricondurre subito a un punto metafisico, l'unico che gli stava veramente a cuore. Il burro deve essere deposto sull'altare perché il sacrificio deve edificarsi dal sacrificio. Se fosse deposto fuori, il sacrificio dovrebbe ricorrere a qualcosa di esterno. Mentre è indispensabile

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che il sacrificio sia autosufficiente e autogenerante, con tutti i paradossi e le contraddizioni che ciò implica. Questo era il precetto supremo. E certo non poteva essere leso perché ci si preoccupava della tranquillità coniugale di un sacrificante. Sulla questione non era più il caso di tornare. Con questo tono parlò Yàjnavalkya.
Un giorno Yàjnavalkya disse che doveva scegliere un luogo di culto per Vàrsnya, il quale intendeva celebrare un sacrificio. Allora Sàtyayajna (del quale nulla sappiamo, se non che il suo nome significa «discendente di Vero Sacrificio») disse: «Invero tutta la terra è divina: un luogo sacrificale è ovunque si possa sacrificare dopo aver delimitato il luogo con la formula appropriata ». Ancora una volta Yàjnavalkya appariva là dove era in gioco un punto dirimente della teologia. L'affermazione del suo interlocutore bastava a respingere ogni eccessiva preoccupazione geomantica. E accennava a una questione capitale: tutto si decide quando una formula sacrificale si imprime su un luogo come un sigillo e lo trasforma. Ma il testo dello Satapatha Bràhmana va oltre e afferma - senza che si possa dire se è sempre una dottrina di Sàtyayajna o si tratta di un'aggiunta di Yàjnavalkya - che «sono gli officianti il luogo sacrificale: i brahmani che, esperti nella dottrina, capaci di ripeterla, sapienti, sacrificano, sono la stabilità: consideriamo ciò la massima vicinanza [agli dèi], per così dire». Ovunque si trovi un perfetto brahmano, quello è il luogo del sacrificio. Una lontana risonanza di quelle parole agiva in Thomas Mann quando disse che, là dove lui era, si trovava anche la lingua tedesca.
Janaka voleva celebrare un sacrificio con grandi onorari. Grandi onorari significava molti officianti. Radunò mille vacche. Sulle corna di ogni vacca legò pezzi d'oro. Janaka voleva capire chi fra i brahmani era andato più in là nella conoscenza; chi era il brah-
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mistha, «il più addentro nel brahman» (tutta l'India è stata una domanda sul brahman). A lui sarebbero state consegnate le vacche. Yàjnavalkya disse allora al suo discepolo Sàmasravas: «Portale via». I brahmani si risentirono: «Come può dire chi è il più addentro nel brahman?». Si fece avanti Asvala, sacerdote presso il re, e chiese a Yàjnavalkya: «Tu sei più addentro di tutti nel brahmanì». Yàjnavalkya rispose: «Rendiamo omaggio al brahmistha, ma desidero le vacche». A questo punto Asvala si azzardò a interrogarlo.
Fu una lunga sequenza. Yàjnavalkya rispose alle domande di sette brahmani e di una donna. I brahmani furono Asvala, Jàratkàrava Artabhàga, Bhujyu Làhyàyani, Usasta Càkràyana, Kahola Kausìtakeya, Uddàlaka Àruni, Vidagdha Sàkalya. La donna era Gàrgì Vàcaknavi, la tessitrice.
Che cosa volevano sapere? Il primo fu Asvala, che era un sacerdote di casa, uno hotr, avvezzo a recitare inni e formule nonché a versare le oblazioni. Volle partire da ciò che è più sicuro, da ciò che è la base di tutto: il rituale. Occorreva verificare se quel tracotante Yàjnavalkya conosceva davvero i fondamenti delle cerimonie.
Ma voleva anche accertare se Yàjnavalkya era in grado di connettere il rituale con quella che era la prima e l'ultima questione: la morte. Il rituale e la morte: chi è capace di rispondere su queste due parole potrà dire che sa, che è addentro nel brahman. L'inizio fu la morte: «Qui tutto è afferrato dalla morte, tutto è assoggettato alla morte: in qual modo un sacrificante può sottrarsi alla presa della morte?».
Dire «il sacrificante» equivaleva a nominare quello che, da Descartes in poi, è il «soggetto»: l'essere generico, senziente, che guarda il mondo e incontra la morte. La domanda sottintendeva questo: prima ancora di tentare di dire ciò che è, IL PENSIERO DEVE SERVIRE PER SOTTRARSI ALLA MORTE, che è una «presa». L'UOMO È L'ANIMALE CHE TENTA DI SFUGGIRE AL PREDATORE. Ma come fare? Con il rituale, che implica -molto spesso- l'uccisione di animali. Questo pensava Asvala, questo era
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ciò che faceva ogni giorno. Ma era giusto? Era sufficiente? E come avrebbe risposto, ora, Yàjnavalkya? Avrebbe capito che la sua domanda ne nascondeva un'altra: <<Come faccio io, un officiante, uno hotr, a sottrarmi alla morte?».
Yàjnavalkya capì - e rispose con somma delicatezza: <<per mezzo dello hotr, del fuoco, della parola. Di fatto LO HOTR DEL SACRIFICIO È LA PAROLA. Ciò che questa parola è, è il fuoco. E lo hotr, è la liberazione, è la totale liberazione». Parole che implicavano questo: «Asvala, tu TI SOTTRAI ALLA MORTE FACENDO CIÒ CHE FAI OGNI GIORNO». Dopo questa risposta, ogni domanda successiva poteva sembrare ridondante.
Esaltato nel profondo, Asvala non lo mostrò, ma volle proseguire usando altrettanta delicatezza. Yàjnavalkya aveva risposto sciogliendo il quesito che da sempre assillava Asvala nella sua opera di officiante. Ma anche Yàjnavalkya era un officiante. Non uno hotr, però, bensì un adhvaryu, uno di quegli ESSERI DEDITI AL GESTO, che si affaccendavano nelle operazioni del rito, mormorando le formule in una sorta di brusio ininterrotto. Se non disponeva della parola piena, che permetteva agli hotr di salvarsi, come avrebbe potuto sottrarsi alla morte? Questo volle chiedere ora Asvala, con una rispettosa manifestazione di interessamento: «"Yàjnavalkya, questo tutto è raggiunto da notte e giorno, è assoggettato a notte e giorno, con quale mezzo un sacrificante potrà liberarsi da questa presa?". "Per mezzo dell'adhvaryu, per mezzo della vista, del sole: di fatto LA VISTA È L'ADHVARYU DEL SACRIFICIO, questa vista è il sole laggiù, è l'adhvaryu, è la liberazione, è la totale liberazione"».
Come due complici adusi al procedimento ricorsivo, sia Asvala sia Yàjnavalkya avevano mantenuto lo stesso impianto formulare, nella domanda e nella risposta. E rivelandosi alleati nella stessa impresa: il sacrificio. Se il sacrificio riusciva a liberare un certo tipo di officiante, ugualmente avrebbe agito per l'altro, anzi per tutti gli altri, anche per gli udgàtr, i «cantori» -e infine per I BRAHMANI, CHE ASSISTEVANO IMMOBILI E SILENZIOSI ALLE CERIMONIE, ma erano l'invisibile camera DO-
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VE TUTTO SI SVOLGEVA APPENA PRIMA DI MANIFESTARSI. Se le risposte di Yàjnavalkya erano giuste, le vite stesse di coloro che lo interrogavano potevano ritenersi salvate, liberate: sa muktih, sàtimuktih. Ati, «di là da», «oltre». Liberati «di là da» tutto.
Idam sarvam, «questo tutto»: così chiamavano il mondo e ciò che esiste. E «QUESTO TUTTO» ERA PREDA DELLA MORTE - ANZI DI MORTE, che è un personaggio, maschile. Questo fu il primo pensiero di Asvala - e la prima domanda per Yàjnavalkya. Il «sacrificante», yajamàna, quindi l'uomo in genere, attorno al quale gli officianti ogni giorno operavano (e Asvala era uno di loro), aveva qualche mezzo per sfuggire alla morte? I riti avevano il potere di agire sulla morte, contro la morte? Non si trattava di vincere o eliminare la morte. Sarebbe stata una stolta pretesa. Si trattava di indicare un modo con cui qualcuno «si libera totalmente (atimucyaté)» dalla presa della morte. Non bastava liberarsi, OCCORREVA liberarsi «di là da». LIBERARSI DA «QUESTO TUTTO», DAL MONDO INTERO.
Non c'era domanda più elementare e primitiva. Anche Yàjnavalkya diede la risposta più elementare: bastava che Asvala facesse ciò che faceva ogni giorno. Bastava che agisse come hotr, come officiante del sacrificio che pronuncia le giuste formule, bastava che usasse la parola e il fuoco. L'unione dei gesti dello hotr, della sua voce e del fuoco su cui ardeva l'oblazione secondo Yàjnavalkya erano sufficienti per non essere più raggiunti dalla morte, per non essere più toccati da Morte.
Domanda e risposta si articolavano in poche parole. Prima dei teoremi, occorreva enunciare gli assiomi. E Yàjnavalkya aveva subito enunciato l'assioma su cui si fondava la vita intorno a lui. Da lì si poteva partire se si voleva inoltrarsi nel brahman, come il re Janaka aveva richiesto.
Le domande successive alla prima, trafiggente, di Asvala non furono ridondanti, anche se poteva sem-
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brare che fossero poste per scrupolo di completezza ( per accertare come anche gli altri officianti -l'udgàtr, l'adhvaryu e il brahmano- avrebbero potuto liberarsi, al pari dello hotr). Asvala chiese a Yàjnavalkya come si potesse non essere assoggettati al giorno e alla notte, alla quindicina anteriore e alla quindicina posteriore (al crescere e al calare della luna). Sottintendeva: come si può non essere sottomessi al dileguarsi di qualsiasi cosa, COME SI PUÒ NON ESSERE SOTTOMESSI AL TEMPO. LA MORTE ERA SOLO IL PUNGIGLIONE DEL TEMPO. Da quella ferita occorreva cominciare. Ma dietro la morte c'era il puro fatto dello scomparire. Perciò il sacrificio produceva innanzitutto la morte, con l'uccisione delle vittime, ma anche la pura scomparsa, versando o bruciando le oblazioni nel fuoco. La liberazione dalla servitù (alla morte, al tempo) passava attraverso una serie di atti (il sacrificio) che ribadivano quella servitù. Era un rompicapo che Asvala volle lasciare ad altri interroganti. Per ora, attraverso Yàjnavalkya, aveva acquisito che, se voleva la «totale liberazione», doveva continuare a fare esattamente ciò che aveva sempre fatto.
Sull'udgàtr e Vadhvaryu le domande di Asvala seguirono la falsariga della prima, sostituendo il tempo alla morte. Ma, nel passare al ruolo del brahmano officiante, Asvala cambiò registro. Questo corrispondeva alla peculiarità del ruolo del brahmano. Se si assimilano gli officianti a un quartetto d'archi, il brahmano sarebbe uno strumentista che non suona mai e INTERVIENE SOLTANTO SE GLI ALTRI SBAGLIANO. L'immobilità scrutatrice del brahmano non è simmetrica rispetto agli altri officianti, che sono vincolati al gesto, all'atto, alla parola. Perciò la domanda di Asvala assunse una forma diversa. Disse: «L'atmosfera non offre qualcosa come un punto d'appoggio. Per quale via il sacrificante si avvierà al mondo celeste?». La risposta di Yàjnavalkya fu: «Per mezzo del brahmano officiante, PER MEZZO DELLA MENTE, DELLA LUNA. IL BRAHMANO È LA MENTE DEL SACRIFICIO». Così anche per mezzo del brahmano si poteva
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giungere alla liberazione, grazie a un improvviso dislivello nell'argomentare, che coincideva con la menzione della mente. E poteva sembrare sconcertante che qualcosa di mutevole come la MENTE (perciò assimilata alla luna) potesse garantire un «punto d'appoggio» -e di conseguenza la liberazione dalla mutevolezza stessa, dalla quale discende il dileguarsi progressivo di tutto. Era un altro rompicapo. Ma anche questa volta Asvala, puntiglioso officiante, non volle soffermarsi oltre. Gli premeva maggiormente accertare se Yàjnavalkya era in grado di precisare le sampad, le «equivalenze» che punteggiano in ogni sua fase il sacrificio. E Yàjnavalkya, ancora una volta, diede risposte immediate e soddisfacenti. Non era solo un metafisico, era un tecnico.
Quando si nomina la «MENTE», MANAS, si sale sempre (o si scende - è indifferente) di un gradino. La mente non è mai sullo stesso piano del resto. Può essere onnipresente o assente. In ogni caso, nulla cambierà nella descrizione e nel funzionamento di ciò che avviene. Con la stessa, insufficiente persuasività, il tutto può essere considerato impensabile senza la mente o pensabile soltanto se la mente non c'è. La prima caratteristica della mente è quella di non concedere certezze enunciabili né sulla sua presenza né sulla sua assenza.
Questo corrispondeva perfettamente al ruolo del brahmano officiante. Era possibile descrivere lo svolgimento, senza errori, di un sacrificio ignorando la presenza del brahmano officiante. Ma era anche possibile descriverlo come la messa in atto di stati successivi della mente dello stesso brahmano, dell'algoritmo che si svolgeva in lui. Perciò Yàjnavalkya disse che il brahmano officiante «è la mente del sacrificio».
Il sacrifìcio vedico non era soltanto una cerimonia durante la quale si trattava di eseguire una sequenza
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di gesti canonici, ma un TORNEO SPECULATIVO, DOVE SI RISCHIAVA LA VITA. Il brahmodya (la disputa sul brahman) incuneato nel rito lasciava sempre aperta la possibilità Che a uno dei disputanti scoppiasse la testa. E poteva avvenire per due motivi: O PERCHÉ IL DISPUTANTE NON AVEVA SAPUTO RISPONDERE A UN QUESITO O PERCHÉ AVEVA POSTO UN QUESITO DI TROPPO. NON RISPONDERE ABBASTANZA, DOMANDARE TROPPO: ERANO QUESTI I DUE CASI CHE FACEVANO RISCHIARE LA MORTE. «Se non mi spieghi questo, la tua testa scoppierà» è la minaccia che Yàjnavalkya rivolse all'insinuante Sàkalya. E non era certo un eccesso momentaneo: era parte del rito, era il sottinteso del rito. Se, avvicinandosi al brahman, non si rischia la testa, vuol dire che non si sta parlando del brahman. Quella volta, quando Sàkalya non seppe rispondere, la sua testa volò in pezzi. Perfino con Gàrgì, la teologa, Yàjnavalkya formulò la sua minaccia, questa volta perché Gàrgì si era avvicinata al domandare troppo quando aveva posto il quesito: «I MONDI DEL BRAHMAN SU QUALE TRAMA SONO TESSUTI?». Allora Gàrgi tacque e si salvò.
Il DIVIETO DI PORRE CERTE QUESTIONI voleva essere un tentativo di proteggere un certo ambito della conoscenza, senza sottostare ad alcun obbligo di spiegarlo? Se così fosse stato, si sarebbe trattato di una vieta strategia sacerdotale, di un genere che tutti i Voltaire futuri sarebbero stati pronti a irridere. Ma non era così. Come si dimostrò in un altro scontro fra Gàrgì e Yàjnavalkya. Gàrgì, oltre che teologa, era una TESSITRICE. PENSAVA CHE LA METAFISICA DOVESSE TRASPARIRE NELLA SUA ARTE COME IN TUTTO IL RESTO. PER QUESTO PREFERIVA PORRE QUESITI CONNESSI CON IL SUO MESTIERE: PERCHÉ ERA CIÒ CHE MEGLIO CONOSCEVA. Così, per due volte, chiese SPIEGAZIONI a Yàjnavalkya SULLA «TRAMA» SU CUI UNA CERTA COSA ERA TESSUTA. Dopo essere stata respinta una volta - e minacciata di un'orribile morte - per la sua domanda, si potrebbe pensare che Gàrgì avrebbe scelto tutt'altra via. Invece tornò a parlare di «TRAMA». Cambiando però il modo (e forse questo era il punto: PROIBITA NON ERA UNA CERTA DOMANDA, MA UN CERTO MODO DI PORLA). Non
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si deve tuttavia pensare che questa volta Gàrgì si presentasse con maniere più miti e ossequiose. Al contrario: Gàrgì disse subito che avrebbe parlato «come un guerriero del paese dei Kàsi o dei Videha, che si faccia avanti tenendo in mano due frecce pronte a trafiggere l'avversario». Ma la formulazione della domanda era cambiata. Questa volta era kantiana. Gàrgì chiese innanzitutto SU CHE TRAMA IL TEMPO («CIÒ CHE SI CHIAMA PASSATO, PRESENTE, FUTURO») ERA TESSUTO. Yàjnavalkya rispose: «SULLA TRAMA DELLO SPAZIO (ÀKÀSA)». Ora Gàrgì aveva di riserva la sua seconda e ultima domanda: «SU QUALE TRAMA LO SPAZIO È TESSUTO?». A questo punto Gàrgì avrebbe potuto aspettarsi, come nell'occasione precedente, un secco rifiuto di rispondere, accompagnato da una minaccia mortale. Così non fu. Anzi, la risposta di Yàjnavalkya fu immediata e diffusa. Disse che LA TRAMA DELLO SPAZIO ERA TESSUTA SULL'«INDISTRUTTIBILE (AKSARA)». E si lanciò in un discorso altissimo, teso, lirico, per spiegare che COSA ERA L'AKSARA. Disse che, se uno non lo conosce, qualsiasi siano i suoi meriti accumulati con le buone opere -dai sacrifici all'ascesi-, rimarrà «un miserabile». Sarebbero passati molti secoli -quasi trenta- perché di quell'«indistruttibile» si tornasse a parlare con autorevolezza comparabile, negli aforismi che Kafka scrisse a Zùrau, fra il settembre 1917 e l'aprile 1918. Kafka fu più breve, più asciutto di Yàjnavalkya, forse perché temeva che a lui stesso, da un momento all'altro, potesse saltare la testa. Ma identico era l'oggetto delle loro parole.
Interrogato da Gàrgì, Yàjnavalkya DEFINÌ L'«INDISTRUTTIBILE» PER VIA NEGATIVA, come avrebbe fatto, in seguito, tutta la discendenza dei grandi mistici. E aggiunse una precisazione che altrove non si incontra: L'INDISTRUTTIBILE «NON MANGIA NULLA E NESSUNO LO MANGIA». Qui parlava la voce dell'adhvaryu, quell'officiante che incessantemente compie i gesti dovuti durante il sacrificio. E tale Yàjnavalkya appunto era. Per il tecnico del sacrificio, ESSENZIALE PER DEFINIRE L'APPARTENENZA O INAPPARTENENZA AL MONDO È LA CATENA DI AGNI E SOMA, DEL DIVORANTE E DEL DIVORATO. Soltanto di ciò che si sot-
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trae a quella catena si può dire che è oltre - e che oltre di esso non si può andare.
Il discorso di Yàjnavalkya proseguì ancora per poco, sempre intercalato dal nome di Gàrgì, come se il brahmano volesse chiudere in una morsa l'attenzione della tessitrice. Si avvicinava infatti il PUNTO CRUCIALE: GLI UOMINI SONO FIERI DI VEDERE, DI UDIRE, DI PERCEPIRE, DI CONOSCERE. DI TUTTO QUESTO SONO CONVINTI DI ESSERE FATTI. E ORA GIUNGEVA YÀJNAVALKYA E PARLAVA DI «QUESTO INDISTRUTTIBILE, O GÀRGÌ, CHE NON È VISTO E VEDE, NON È UDITO E ODE, NON È PENSATO E PENSA, NON È CONOSCIUTO E CONOSCE». E AL TEMPO STESSO «È L'UNICO CHE VEDE, L'UNICO CHE ODE, L'UNICO CHE PENSA, L'UNICO CHE CONOSCE». PERCIÒ GLI UOMINI, QUALSIASI COSA FACCIANO, SONO PASSIVI, AGITI DA UN'ENTITÀ CHE POSSONO ANCHE NON RICONOSCERE. E, sE MAI SE NE ACCORGONO E SI RIVOLGONO VERSO CIÒ CHE LI AGISCE, DEVONO CONSTATARE CHE NON POSSONO CONOSCERLO. Eppure SOLTANTO «COLUI CHE NON ABBANDONA QUESTO MONDO SENZA AVER CONOSCIUTO QUESTO INDISTRUTTIBILE» PUÒ ESSERE CONSIDERATO UN BRAHMANO. Ma COME SI PUÒ CONOSCERE CIÒ CHE NON SI LASCIA CONOSCERE? SOLTANTO PER UNA VIA: DIVENTANDO IN QUALCHE MISURA QUELLA COSA STESSA.
DI QUESTO È FATTA, disse Yàjnavalkya, LA TRAMA DI CIÒ CHE È, DI QUELLO SPAZIO SU CUI PERSINO L'INAFFERRABILE TEMPO È TESSUTO. E QUELLA TRAMA È INDISTRUTTIBILE. QUELLA TRAMA È L'INDISTRUTTIBILE, AKSARA. Allora Gàrgì si rivolse agli altri brahmani che stavano ascoltando e disse loro, con malcelata improntitudine, che dovevano sentirsi soddisfatti. Aggiunse poi che nessuno avrebbe mai battuto Yàjnavalkya in un brahmodya.
Imponente per mole, venerabile per antichità, assiduamente frequentato e saccheggiato dagli studiosi, lo Satapatha Bràhmana avrebbe dovuto indurli a concedergli la prima attenzione che ogni opera si augura: essere considerata come un tutto - e in primo luo-
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go nella sua forma. Questo non è avvenuto. Al punto che, ancora oggi, non si dà un'edizione completa dello Satapatha Brahmana, che dovrebbe includere, come sua parte finale, la Brhadàranyaka Upanisad. Nel dicembre del 1899, giunto alla fine della sua grandiosa impresa di traduzione dello Satapatha Bràhmana, che lo aveva assorbito per più di vent'anni, Julius Eggeling avvertiva tranquillamente: «Il presente volume completa l'esposizione teorica del cerimoniale sacrificale, portandoci così alla fine della nostra impresa. I rimanenti sei capitoli dell'ultimo libro del Bràhmana formano la cosiddetta Brhadàranyaka, o grande trattato della foresta, la quale, essendo una delle dieci Upanisad primitive, è inclusa nella traduzione condotta dal professor F. Max Mùller di quegli antichi trattati teosofici pubblicati in questa serie». Era un modo candido di annunciare che lo Satapatha Bràhmana era stato amputato di una sua parte. E questa parte mancante sarebbe stata da allora più volte tradotta e commentata, da sola o unita ad altre Upanisad, come uno dei più celebri testi del pensiero indiano.
La scelta filologica era incongrua, come se la Repubblica di Platone continuasse a circolare amputata del suo decimo libro, quello che contiene la storia di Er il Panfilio, colui che, dodici giorni dopo la sua morte, « trovandosi già sul rogo tornò in vita e, tornato in vita, raccontò ciò che aveva visto laggiù» con immagini che da allora si sono insediate nella vita mentale dell'Occidente. O come se, rimanendo in ambito indiano, il Mahàbhàrata venisse pubblicato senza includervi la Bhagavad Gita.
Così lo Satapatha Bràhmana nell'edizione di Eggeling non contiene i «cento cammini» - cioè le cento «lezioni», adhyàya, di cui si parla nel titolo -, ma soltanto novantaquattro. Per leggere le ultime sei occorre proseguire con la Brhadàranyaka Upanisad. A ciò si è aggiunta un'ulteriore distorsione: non solo si è accettata l'amputazione del testo, ma per lunghi anni si è sviluppata la teoria, del tutto infondata, che fra le prime Upanisad e i Bràhmana vi fosse una radicale opposi-

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zione, corrispondente a una rivolta dei «principi» (gli ksatriya, secondo la traduzione di Renou) contro i torvi brahmani, superstiziosamente devoti al rituale. Scegliendo perciò di ignorare, con tutta la boria della scienza, che lo Satapatha Bràhmana si dichiara, alla fine della sua ultima parte, essere opera appunto di uno di quei brahmani: Yàjnavalkya. Il quale avrebbe dovuto aspettare, per essere rivendicato con argomenti incontrovertibili in quanto autore e personaggio sia del Bràhmana sia della susseguente Upanisad, un magistrale articolo di Louis Renou: Les Relations du Satapa-thabràhmana avec la Brhadàranyakopanisad et la person-nalité de Yàjnavalkya. Pubblicato nel 1948 su una rivista di scarsa circolazione - «Indian Culture» - e protetto dai molteplici sbarramenti delle sigle e abbreviazioni vediche nonché da numerose puntualizzazioni filologiche, quello studio è rintracciabile oggi, in piena solitudine, nel secondo volume dello Choix d'études indiennes di Renou. Così una questione capitale - la ricomposizione della prima figura di autore con una possente fisionomia che si profila nell'India vedica - continua a rimanere nell'ombra protettiva della filologia. Eppure nessuno come Yàjnavalkya potrebbe valere da contrappunto e contrapposizione vedica al Buddha.
Il BRAHMANO si riconosce da una certa luce, da uno splendore che è detto brahmavarcasa, «splendore del brahmano». Quella luce è data dal brahman ed è l'unico fine del brahmano, osservò Yàjnavalkya: «Questo dovrebbe volere il brahmano: ESSERE ILLUMINATO DAL BRAHMAN». Ma l'ACCENSIONE DI QUELLA LUCE avviene simultaneamente a quella del fuoco, dei metri e delle stagioni. Il brahmano che recita i «versi dell'accensione (sàmidheni)» è egli stesso uno dei destinatari che quei versi devono accendere. E, come il fuoco accompagnato dai versi ha una luce più intensa, «invulnerabile, intoccabile», così il brahmano avrà una luce diversa da ogni altro uomo. Questa è l'origine percepibile della sua autorità. Se un giorno si dirà, spesso con
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qualche astio, che il brahmano appare «invulnerabile, intoccabile », sarà perché in lui si trasmette, forse anche stravolto, un ultimo bagliore della luce del fuoco che un giorno un altro brahmano accese pronunciando i «versi dell'accensione».
Tutte le forme divine sono presenti nel FUOCO: quando è appena acceso e sprigiona solo fumo, è Rudra; quando già arde, è Varuna; quando divampa, è Indra; quando si abbassa, è Mitra. Ma l'unica forma in cui il fuoco lascia trasparire una luce intensa, senza bisogno di fiamma, è il brahman: «Quando le braci splendono intensamente, quello è il brahman. E se qualcuno desidera conseguire lo splendore brahmanico, CHE EGLI OFFRA ALLORA». LA MISTERIOSA QUALITÀ DEI BRAHMANI è innanzitutto un momento nella vita del fuoco, RICONOSCIBILE OGNI GIORNO. IL MISTERO SI PRESENTA COME QUALCOSA CHE È SOTTO GLI OCCHI DI CIASCUNO - «mistero palese» dirà un giorno Goethe. Non è più nascosto, né più inaccessibile. IL SACRIFICANTE CHE VOGLIA AVVICINARGLISI NON HA CHE DA SCEGLIERE QUEL MOMENTO PER PRESENTARE LA SUA OFFERTA. Si raccomanda solo la COSTANZA: il sacrificante dovrà offrire sempre allo stesso tipo di fuoco per un anno. Ogni volta dovrà aspettare il momento delle braci. Non potrà dedicarsi un giorno al fuoco divampante, un giorno al fumo, un giorno al fuoco che si abbassa. Sarebbe come cercare acqua scavando con una vanga per poco tempo, sempre in punti diversi. Non si troverà mai nulla.

Negli ultimi anni di Baudelaire, i vignettisti parigini lo irridevano come il poeta della Charogne. Più delle poesie erotiche, era quello il testo scandaloso per eccellenza. Nessun poeta - si diceva - aveva mai osato accostare il corpo dell'amata e la carogna abbandonata di un animale.
Eppure qualcuno aveva preceduto Baudelaire, con audacia non minore, nel parlare di una carogna. Si trattava di Yàjnavalkya, se a lui si attribuiscono certe parole che si incontrano nel quarto kànda dello Satapatha Bràhmana: «Gli dèi dispersero in parte quel-
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l'odore e lo deposero negli animali domestici. È questo l'odore di carogna negli animali domestici: perciò non ci si deve tappare il naso all'odore di carogna, questo è l'odore del re Soma».
Due figure - la donna amata e il re Soma - si rivelano nel fetore della carogna. Per Baudelaire, con un brivido di ripulsa e di segreto compiacimento. E' l'orrore che si spalanca dietro l'apparenza, come I MODERNI sospettano. Perciò SONO COSÌ FRENETICI. FUGGONO, NON SI SOFFERMANO, HANNO PAURA CHE L'APPARENZA SI TRASFORMI SOTTO I LORO OCCHI. Per Yàjnavalkya, invece, L'ACCETTAZIONE È COMPLETA. Anzi, si collega a una PRESCRIZIONE CHE VIENE IMPOSTA A UN SENSO MOLTO PRIMITIVO: L'OLFATTO, RESTIO A OBBEDIRE.
Qualcosa di remoto e possente doveva essere sottinteso in quella proibizione. Si doveva risalire al momento più pauroso per gli dèi, quando Indra aveva scagliato la folgore sull'informe Vrtra, ma non era affatto sicuro di averlo ucciso. Allora si nascose. Acquattati dietro di lui, altrettanto dubitosi e terrorizzati, erano gli dèi. Dissero a Vàyu, Vento: «Vàyu, scopri se Vrtra è morto o vivo; perché tu sei il più veloce fra di noi: se vive, tornerai subito qui». Vàyu accettò, dopo aver chiesto una ricompensa. Quando tornò, disse: «Vrtra è ucciso: fate con l'ucciso quello che volete». Gli dèi si precipitarono. Sapevano che il corpo di Vrtra era gonfio di soma, perché dal soma Vrtra era nato. Ciascuno voleva saccheggiare il cadavere, attingerne la porzione più grande. Si accorsero che il soma puzzava: «Aspro e putrido si effondeva verso di loro: non era adatto per essere offerto né era adatto per essere bevuto». Allora chiesero di nuovo aiuto a Vàyu: «Vàyu, soffiagli sopra, rendilo appetibile per noi». Vàyu chiese un'altra ricompensa. Poi si mise a soffiare. Il lezzo cominciava a disperdersi. Gli dèi lo depositarono nell'odore di carogna che è negli animali domestici. Poi Vàyu soffiò ancora. Finalmente il soma si poteva bere. Gli dèi continuarono a disputarsene le parti. Intorno, il mondo era cosparso di fetide carogne. Ma anche in loro era il soma. Agli uomini sarebbe spettato ri-
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cordarlo. Se le incontravano, non avrebbero dovuto tapparsi il naso.
Durissime le esigenze dei ritualisti: il SOMA, la pianta inebriante che cresce sulla montagna Mùjavant, poteva anche farsi trovare sempre più di rado, poteva anche sparire, ma i riti che la celebravano sarebbero continuati, identici. All'unico si sarebbe dato un sostituto. Passo fatale. Il rito si sarebbe celebrato con un'altra pianta, sprovvista dei poteri del soma. Ma sarebbero rimasti gli INNI. E se un giorno, vagando, si fosse incontrata la carogna di un animale, era proibito turarsi il naso. Perché anche in quel corpo disfatto, come in tutti i corpi, un giorno si era depositato il soma. Anzi, quell'odore repellente era il «segno distintivo del re Soma». Il soma è il bene allo stato grezzo. Già intollerabile in sé, diventa ancor più intollerabile quando si mescola con IL «MALE DI MORTE», pàpmà mrtyuh. Appunto allora OCCORRE ACCETTARLO, INALARLO, LASCIARE CHE PENETRI IN NOI. Il bene è qualcosa contro cui la natura si rivolta. Ma bisogna domarla. A QUESTO SERVONO I RITI. E neppure questo era sufficiente, per i ritualisti. Il pensiero deve estendersi anche al caso. Anche all'incontro imprevisto con la carogna di un animale, mentre si cammina in una zona poco battuta.
Quel , ÀTMAN, che «esisteva da solo all'inizio» AVEVA LA FORMA DI UNA « PERSONA », PURUSA, MA NON ERA SEMPLICEMENTE UN UOMO. E NON VEDEVA NULLA AL DI FUORI. DESIDERAVA IL PIACERE, MA «IL PIACERE NON È PER CHI È SOLO». ALLORA DECISE DI DIVIDERSI IN DUE: UN ESSERE FEMMINILE E UN ESSERE MASCHILE. «PERCIÒ YÀJNAVALKYA HA DETTO: "NOI SIAMO CIASCUNO UNA METÀ"». Qui più concisa e più scabra, secondo lo stile di Yàjnavalkya: ma la dottrina era la stessa che un giorno avrebbe esposto Aristofane, durante il simposio che Platone ha raccontato.
L'osservazione di Yàjnavalkya è densa di implicazioni. Innanzitutto spiega perché «il vuoto lasciato viene riempito dalla donna». Così fu anche all'inizio, perché il , appena diviso in due, si congiunse con quel-
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la donna che aveva fatto uscire da sé. «COSÌ NACQUERO GLI UOMINI». A questo punto viene FATTO RIFERIMENTO PER LA PRIMA VOLTA AL PENSIERO DELLA DONNA: «Allora essa rifletté: "Come può congiungersi con me, dopo avermi generato da sé? Su, bisogna che mi nasconda". Lei diventò vacca, lui toro. Si unì a lei: nacquero le vacche. Lei diventò giumenta, lui stallone». Con suprema rapidità, si evoca il gesto della donna che fugge (per ostilità? per sedurre meglio? per l'uno e per l'altro motivo?) e la sequenza zoologica. La guerra strind-berghiana dei sessi e le metamorfosi animali di Zeus. Che procedono senza requie: «Così venne generato tutto ciò che va per coppie, sino alle formiche». Anche se quelle storie di coiti multipli e metamorfici potrebbero essere greche, il dettaglio delle formiche è la sigla dell'autore vedico.
C'è qualcosa nel piacere sessuale che lo rende diverso da ogni altro e supremo. «Eros anikate màchan», «EROS INVINCIBILE IN BATTAGLIA» scrisse Sofocle - e non fu mai confutato. Ma perché è così? Anche a questo la risposta più immediata e più convincente venne data da Yàjnavalkya: «Come un uomo fra le braccia di una donna amata non sa più niente del fuori, niente del dentro, così questa persona (purusa), abbracciata dall'àtman della conoscenza, non sa più niente del fuori, niente del dentro». Nessun altro piacere è così affine all'àtman, perché nessuno riconduce così vicino all'origine, quando l'àtman aveva la «forma di Purusa» - e quella PERSONA, SOLITARIA E ANTERIORE AL MONDO, «aveva la dimensione di un uomo e di una donna strettamente abbracciati».
Secondo Renou il brahmodya, con la sua alta rischiosità, era la cellula formale che collegava i Bràhmana alle Upanisad. A riprova, nei kànda 10 e 11 dello Satapatha Bràhmana e nella parte dominata da Yàjnavalkya nella Brhadàranyaka Upanisad si incontrano «gli stessi interlocutori, lo stesso tipo di scene, spesso gli stessi
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dettagli nella fraseologia». Sicché si può dire che le Upanisad non solo non si oppongono, ma <<non sono altro ... che il fedele prolungamento dei Bràhmana».
E Renou sarebbe andato ancora oltre: «Scavando più in profondità, occorre osservare che la nozione stessa di brahman, quale viene elaborata nel pensiero delle Upanisad, è essa stessa un prodotto del brahmodya: nel senso che è appunto in questa forma di dialettica e in questo clima di tenzone che si è costituita la speculazione sul brahman, nucleo delle Upanisad».
Ora, all'interno della Brhadàranyaka Upanisad si può assistere non solo agli esempi supremi di brahmodya, ma a un primo tentativo della forma di sfilarsi da se stessa, di uscire dal proprio guscio e procedere in una nuova direzione, che -in mancanza di altro termine e prima ancora che la nozione esistesse- potrebbe essere definita come quella del romanzo. Il protagonista rimane lo stesso Yajnavalkya. Ma il tono cambia d'improvviso. Si è concluso il grandioso brahmodya con Janaka e si avvia la sezione finale della quarta «lezione» con queste parole: «A quel tempo Yajnavalkya aveva due mogli, Maitreyi e Katyàyani. Maitreyi sapeva parlare del brahman, Katyàyanì possedeva la conoscenza delle donne. Quando Yajnavalkya si propose di entrare in un altro genere di vita, "Maitreyi," disse Yajnavalkya "voglio lasciare questi luoghi per condurre la vita di monaco errante: perciò voglio fare un accordo fra Katyàyanì e te"».
Per la prima volta, qui siamo proiettati lontano dal clima delle dispute e dei riti. Stiamo assistendo a un dialogo intimo, sobrio, senza cerimonie, fra due vecchi coniugi. Ed è come se l'essenza della prosa, della prosa che racconta, senza metro e senza obblighi rituali, ci invitasse a chinarci su una storia privata, la storia irripetibile di tre persone. Il grande brahmano Yajnavalkya prende congedo dai suoi lettori attraverso le interposte persone delle sue due mogli, Maitreyi e Katyàyanì, delle quali nulla sappiamo se non che una è versata nel brahman mentre l'altra possiede la conoscenza propria delle donne (qualsiasi cosa ciò possa significare). E un momento di altissima intensità, non
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solo perché prelude a un discorso di Yajnavalkya che può essere considerato la sua ultima parola sull'àtman - e in particolare su quell'«amore del Sé» senza il quale anche il brahman ci «abbandona» -, ma perché nella composizione della Brhadàranyaka Upanisad viene ripetuto due volte, in termini simili (2, 4, 1-14; e 4, 5, 1-15). Ed è alla fine dell'insegnamento a Maitreyi che Yajnavalkya ripete la sua definizione per via negativa dell'àtman, in termini identici a quelli che già aveva usato con il re Janaka. Questa volta Yajnavalkya non lascia la scena per passare ad altre dispute e ad altre sessioni sacrificali. Questa volta si legge: «Dopo aver così parlato, Yajnavalkya si allontanò». Il testo prosegue per altri due adhyàya, senza più coinvolgerlo. Quella scena con Maitreyi, quelle parole sull'àtman componevano la sua ultima apparizione prima che si dileguasse nella foresta. E il dettaglio che suggella l'entrata nel regno del romanzo è che l'ultima preoccupazione manifestata da Yajnavalkya fosse quella di stabilire un «accordo» fra le due mogli che si apprestava ad abbandonare.
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III. Animali

Corroso dalla tracotanza del sapere, il giovane Bhrgu, figlio del dio sovrano Varuna, venne mandato dal padre per il mondo (in questo mondo, secondo lo Satapatha Brahmana, o nell'altro mondo, secondo la versione del Jaiminiya Bràhmana) per VEDERE CIÒ CHE IL SAPERE DA SOLO NON RIVELAVA. Si trattava di scoprire come il mondo stesso è fatto. Una visione la cui mancanza rende vano ogni sapere.
A est, Bhrgu incontrò uomini che squartavano altri uomini. Bhrgu chiese: «Perché?». Gli risposero: «Perché questi uomini fecero lo stesso con noi nell'altro mondo». Anche a sud incontrò la strana scena. A ovest c'erano uomini che mangiavano altri uomini e stavano seduti, tranquilli. E anche a nord, in mezzo a grida lancinanti, c'erano uomini che mangiavano altri uomini.
Quando Bhrgu tornò dal padre, sembrava aver perso la parola. Varuna lo guardò con soddisfazione, pensando: «Allora ha visto». Era venuto il momento di spiegare al figlio ciò che aveva visto. Gli uomini a est, disse, sono gli alberi; quelli a sud sono gli armenti; quelli a ovest sono le erbe. Infine quelli a nord, che
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gridavano mentre altri uomini li mangiavano, erano le acque.
Che cosa aveva visto Bhrgu? Che il mondo è fatto di Agni e Soma, di questi due fratelli. Cresciuti come due Asura nel ventre di Vrtra, lo abbandonarono per seguire il richiamo di un altro loro fratello, Indra, e passare dalla parte dei Deva. Poi «UNO DEI DUE DIVENTÒ IL DIVORANTE E L'ALTRO DIVENTÒ CIBO. AGNI DIVENTÒ IL DIVORANTE E SOMA IL CIBO. QUAGGIÙ NON VI È ALTRO CHE DIVORANTE E DIVORATO». In tutto ciò che accade, senza eccezione e a ogni livello, si hanno questi due poli. Ma Bhrgu scoprì anche qualcos'altro: I DUE POLI ERANO REVERSIBILI. IN UN QUALCHE MOMENTO LE POSIZIONI SI INVERTIRANNO, ANZI DOVRANNO INVERTIRSI, PERCHÉ TALE È L'ORDINE DEL MONDO. Questo spiega perché tutto ciò che si dice di Agni in un qualche momento possa dirsi anche di Soma. E viceversa. Fenomeno che aveva già sconcertato Abel Bergaigne.
Le rivelazioni che Bhrgu incontrò erano incastonate una nell'altra. In primo luogo: l'atto ultimo a cui tutti gli altri si riconducevano era l'ATTO DEL MANGIARE -o comunque l'ATTO DEL RECIDERE, dello SVELLERE. OGNI ATTO CHE CONSUMA UNA PARTE DEL MONDO, OGNI ATTO CHE DISTRUGGE. Non si dà uno stato neutro, in cui questo non avvenga. L'ATTO DEL MANGIARE È UNA VIOLENZA CHE FA SPARIRE IL VIVENTE IN MOLTE SUE FORME. CHE SI TRATTI DI ERBE, DI PIANTE, DI ALBERI, DI ANIMALI O DI ESSERI UMANI, IL PROCESSO È IDENTICO. C'È SEMPRE UN FUOCO CHE DIVORA E UNA SOSTANZA CHE VIENE DIVORATA. QUESTA VIOLENZA, CHE È UN DOLORE E UNA TORTURA, UN GIORNO SARÀ ESERCITATA SU CHI LA METTE IN ATTO DA PARTE DI CHI LA SUBISCE. TALE CATENA DI EVENTI NON È MODIFICABILE. Ma il guasto profondo, la paralisi che ciò produce in chi lo percepisce possono essere medicati, rimediati - apprendiamo. E questo il sapere di Varuna, che Bhrgu non sarebbe riuscito ad attingere senza l'urto di ciò che vide girando il mondo - o anche l'altro mondo. E qual era il rimedio? L'atto stesso di percepire ciò che è - e di manifestarlo, non già con un enunciato, ma con una serie di gesti: nel caso, con una serie di gesti da com-
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piere nell'agnihotra, il più elementare fra tutti i RITI. VERSARE LATTE NEL FUOCO -OGNI MATTINO, OGNI SERA- SIGNIFICAVA ACCETTARE CHE CIÒ CHE APPARE SCOMPAIA E CHE QUELLA SCOMPARSA SERVA A FAR SUSSISTERE QUALCOS'ALTRO, NELL'INVISIBILE. Questo fu l'insegnamento che Varuna volle impartire al figlio.
Dalla storia di Bhrgu è facile desumere quanto i veggenti vedici fossero abili nel cogliere il male con suprema acuità. Per loro, IL MALE SI SVELAVA GIÀ NEL MOMENTO IN CUI UN'ASCIA SI ABBATTEVA SU UN ALBERO O UNA MANO STRAPPAVA UN'ERBA. Era il MALE metafisico, insito in TUTTO CIÒ CHE È COSTRETTO A DISTRUGGERE UNA PARTE DEL MONDO PER SOPRAVVIVERE, QUINDI IN PRIMO LUOGO NELL'UOMO. Rispetto ai moderni, che hanno teso a limitare il male all'atto volontario, l'area che esso veniva a ricoprire era molto più vasta. E includeva certi atti involontari, nonché atti che semplicemente non possono essere evitati, se gli uomini vogliono sopravvivere - per esempio l'atto del mangiare. Il male è dunque ubiquo e pervasivo. Questo spiega allora perché il sacrificio sia altrettanto ubiquo e pervasivo. IL SACRIFÌCIO È L'ATTO CON CUI IL MALE VIENE CONDOTTO ALLA COSCIENZA, con arte appresa da «colui che sa così». Quel processo in cui il male si ripete ed è guidato, nella sua totalità, verso la coscienza, attraverso gesti e formule, è il rimedio supremo che noi possiamo opporre al male. Al di fuori di esso, vale la meccanica che si rivela nel viaggio di Bhrgu. CHI MANGIA SARÀ MANGIATO. CHI HA FATTO A PEZZI SARÀ FATTO A PEZZI. CHI HA CONSUMATO CIBO DIVENTERÀ CIBO EGLI STESSO.
L'ATROCITÀ DIFFUSA, L'ALTERNANZA INCESSANTE E INARRESTABILE FRA DIVORANTE E DIVORATO, che Bhrgu aveva constatato nella sua peregrinazione per tutti i quadranti del mondo - e che il padre Varuna gli INSEGNÒ A SUPERARE MEDIANTE LA PRATICA DEL SACRIFICIO -, NON SCOMPAIONO MAI, anzi traspaiono minacciosamente anche durante l'esecuzione del sacrificio stesso. Le vampe sacrificali sono altrettanti occhi, «fissano l'attenzione sul sacrificante e puntano su di lui». Ciò che più desidererebbero non è l'oblazione, ma il sacrificante stes-
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so. Davanti al fuoco, il sacrificante si sente osservato, guardato. L'occhio che lo scruta è l'occhio del fuoco. Prima di formulare egli stesso un desiderio, sente che è il fuoco a desiderare lui, la sua carne. Qui avviene la sostituzione, il riscatto del Sé: ultima, brusca operazione a cui ricorre il sacrificante per offrire al fuoco qualcosa in luogo di se stesso. Il sacrificante offre cibo per evitare di diventare cibo egli stesso.
Nel suo viaggio terrorizzante Bhrgu incontrò un mondo dove gli animali divoravano gli uomini. Ma non si trattava soltanto di un rovesciamento dell'ordine. Era anche uno squarcio di chiarezza sulla storia dell'umanità, come se finalmente qualcuno avesse istruito Bhrgu su certi suoi antenati. La fase in cui gli uomini, più che divorare, venivano divorati non è che il primo, lunghissimo segmento della loro storia. Varuna voleva che dell'educazione del figlio facesse parte anche questa visione del passato, così come un giovane viene mandato in un buon collegio per imparare la storia del suo paese. Anche questo furono GLI UOMINI VEDICI: TRASCURAVANO, PIÙ DI QUALSIASI ALTRO POPOLO, LA STORIA - PERÒ MANTENEVANO IL CONTATTO, PIÙ DI QUALSIASI ALTRO POPOLO, CON LA REMOTA PREISTORIA, CHE TRASPARIVA NEI LORO RITI E NEI LORO MITI.
Nel paesaggio vedico c'è un oggetto che emana terrore e venerazione: il PALO SACRIFICALE. Fra gli emblemi di quell'epoca, l'unico tuttora visibile. Anche oggi, in certi villaggi dell'India, si può osservare un pezzo di legno che spunta dal suolo, senza ragione apparente. Madeleine Biardeau ne ha trovati molti, in varie parti dell'India, constatando che si trattava di quel «PALO», YUPA, di quella «FOLGORE» di cui parlavano i ritualisti vedici. Ma perché una «folgore» ? Per capirlo, occorre risalire a una storia lontana:
«Ci sono un animale e un palo sacrificale, perché non immolano mai un animale senza un palo. ECCO PERCHÉ È COSÌ: GLI ANIMALI IN ORIGINE NON SI SOTTOMETTEVANO AL FATTO DI DIVENTARE CIBO, così come ora sono di-
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ventati cibo. Come l'uomo qui cammina su due gambe ed eretto, così essi camminavano su due gambe ed eretti.
«Allora gli dèi percepirono quella folgore, cioè il palo sacrificale; lo innalzarono e, per paura di esso, gli animali si rattrappirono e si misero a quattro zampe, e così DIVENTARONO CIBO, COME OGGI SONO CIBO, PERCHÉ SI SOTTOMISERO: perciò immolarono l'animale soltanto al palo e mai senza un palo.
« Dopo aver condotto avanti la vittima e fatto divampare il fuoco, egli lega l'animale. Ecco perché è così: GLI ANIMALI IN ORIGINE NON SI SOTTOMETTEVANO AL FATTO DI DIVENTARE CIBO SACRIFICALE, così come ora sono diventati cibo sacrificale e vengono offerti nel fuoco. Gli dèi li rinchiusero: anche così rinchiusi, non si rassegnarono.
«Essi dissero: "In verità, questi animali non sanno come questo avviene, che il cibo sacrificale viene offerto nel fuoco, e non conoscono quel luogo sicuro [il fuoco] : offriamo fuoco nel fuoco dopo aver rinchiuso gli animali e fatto divampare il fuoco, ed essi sapranno che così si prepara il cibo sacrificale, che questo è il suo luogo; che è proprio nel fuoco che il cibo sacrificale viene offerto: e di conseguenza si rassegneranno e si disporranno favorevolmente a essere immolati".
«Dopo aver in primo luogo rinchiuso gli animali e fatto divampare il fuoco, offrirono fuoco nel fuoco; e allora essi [gli animali] seppero che così veramente si prepara il cibo sacrificale, che questo è il suo luogo; che è proprio nel fuoco che il cibo sacrificale viene offerto. E di conseguenza si rassegnarono e si disposero favorevolmente a essere immolati».
Sarebbe vano cercare un altro testo che racconti con così alta precisione, con così alto pathos il PASSAGGIO DECISIVO CHE SI FORMALIZZÒ CON LA MACELLAZIONE DEGLI ANIMALI DOMESTICI: L'ISTITUZIONE DELLA DIETA CARNEA. FU UNA NECESSITÀ, MA SOPRATTUTTO UNA COLPA, UNA IMMANE COLPA. PER GIUSTIFICARE LA NECESSITÀ, SI PROVVIDE A DAR FORMA ALL'EDIFICIO TEOLOGICO DEL SACRIFICIO, tempio-labirinto, pieno di camminamenti e cunicoli, dalle biforcazioni innumerevoli. E la necessità del sacrificio
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avrebbe incorporato in sé la colpa, anzi l'avrebbe acuita e custodita, come in uno scrigno. Quella colpa alludeva a un'altra colpa, più radicale, di cui il sacrificio sarebbe stato una conseguenza: LA COLPA DELL'IMITAZIONE, DI QUELLA SCELTA REMOTA CHE AVEVA SPINTO UNA SPECIE DI ESSERI PREDATI AD APPROPRIARSI DI COMPORTAMENTI TIPICI DEI LORO NEMICI PREDATORI. PRIMO GESTO CONTRO NATURA - NESSUN'ALTRA SPECIE AVREBBE OSATO TANTO -, CHE UN GIORNO SAREBBE STATO INTESO COME LA NATURA STESSA DELL'UOMO.
Più che «ANIMALE MALATO», secondo la formula di Hegel, ANIMALE MIMETICO PER ECCELLENZA (e si può anche pensare che la mimesi fosse appunto la sua malattia), L'UOMO È L'UNICO ESSERE DEL REGNO ANIMALE AD AVER ABBANDONATO LA SUA NATURA, SE PER NATURA SI INTENDE IL REPERTORIO DI COMPORTAMENTI DEL QUALE OGNI SPECIE APPARE PROVVISTA FIN DALLA NASCITA. Forte, ma non tanto forte da non dover riconoscere la propria inermità di fronte ad altri esseri - i predatori -, l'uomo decise in un certo momento, che può anche essere durato centomila anni, non di opporsi ai suoi avversari ma di imitarli. FU ALLORA CHE L'ESSERE PREDATO SI ADDESTRÒ A DIVENTARE PREDATORE. Aveva denti e non zanne - e unghie insufficienti per dilaniare la carne. Né poteva disporre di un veleno prodotto dal suo corpo, come i serpenti, temibili predatori. DOVETTE ALLORA RICORRERE A QUALCOSA DI CUI NESSUNO DEI PREDATORI DISPONEVA: L'ARMA, LO STRUMENTO, LA PROTESI. COSÌ NACQUERO LA SELCE SCHEGGIATA E LA FRECCIA. A questo punto, CON L'IMITAZIONE E LA FABBRICAZIONE DI STRUMENTI, ERANO STATI COMPIUTI I DUE PASSI DECISIVI CHE TUTTO IL RESTO DELLA STORIA AVREBBE PROVATO A ELABORARE, SINO A OGGI: LA MIMESI E LA TECNICA. Se si guarda indietro, IL DISSESTAMENTO PRODOTTO DAL PRIMO PASSO - QUELLO DELLA MIMESI, PER CUI GLI UOMINI DECISERO DI IMITARE, FRA TUTTI GLI ESSERI, APPUNTO QUELLI DAI QUALI VENIVANO SPESSO UCCISI - è incomparabilmente più radicale e sconvolgente rispetto a ogni passo successivo. UNA RISPOSTA A QUELLO SCONVOLGIMENTO FU IL SACRIFICIO, NELLE SUE SVARIATE FORME. Null'altro può spiegare PERCHÉ UN COMPORTAMENTO COSÌ INCONGRUO RISPET-
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TO A OGNI ALTRO RISCONTRABILE NEL REGNO ANIMALE SI SIA MANIFESTATO PRESSOCHÉ OVUNQUE, nelle forme più diverse ma pur sempre collegate da alcuni tratti essenziali. PRIMA ANCORA DI ASSUMERE QUALSIASI ALTRO SIGNIFICATO, IL SACRIFICIO ERA UNA RISPOSTA A QUELL'IMMENSO SCONVOLGIMENTO ALL'INTERNO DELLA SPECIE - E UN TENTATIVO DI RIEQUILIBRARE UN ORDINE CHE ERA STATO PER SEMPRE LESO E VIOLATO.
Soltanto in questo modo può essere inteso il SACRIFICIO: NON GIÀ COPERTURA DELLA COLPA, pia fraus che permette al mondo di procedere grazie all'astuzia dei sacerdoti. Ma ELABORAZIONE SPECULATIVA CHE INNANZITUTTO ESALTA LA COLPA. La esalta al punto da persuadere la vittima, da renderla favorevolmente disposta a essere immolata. Così non accade, ovviamente. Nessuno si illude che il capro o il cavallo si lascino convincere a essere uccisi e macellati. Nessuno dei ritualisti deve averlo creduto. Ma compiere un gesto in quella direzione, pronunciare formule con quella intenzione: tale è il supremo sforzo concesso al pensiero, concesso all'azione, là dove si scontrano con l'inconciliabile. Tentativo illusorio, provvisorio. Eppure quella consapevole illusione è l'unica forza che permette di stabilire una distanza, fosse anche minima, dal semplice atto di uccidere.
Mai altrove nell'antichità (in seguito la questione non si sarebbe più posta, così convinto era l'uomo della sua superiorità morale) qualcuno aveva osato dire che gli animali in origine camminavano eretti e che diventarono quadrupedi soltanto perché terrorizzati da qualcosa: da un palo, solitario, ottagonale, cinto da una corona d'erba per coprire la sua nudità. La scoperta del palo non veniva attribuita agli uomini, ma agli dèi, come se quel palo fosse davvero axis mundi - e la vita non fosse concepibile senza di esso. Eppure il palo non è sufficiente: costringe gli animali a camminare a quattro zampe, nel terrore, ma non li convince ad accettare di essere macellati. Occorse allora che gli dèi proponessero una sottigliezza teologica: spiegarono agli animali che il sacrificio era un'of-
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ferta di «fuoco nel fuoco». Formula misteriosa: ma tutto lo Satapatha Brahmana, e in particolare le sezioni sull'altare del fuoco, sono dedicate a illustrarla. Non fu dunque sufficiente quella «folgore» che è il palo sacrificale. Diffuse il terrore, ma gli animali ancora non si sottomettevano. Sopravvenne allora la teoria, l'alta speculazione liturgica. Soltanto allora gli animali si rassegnarono. O almeno si disse che gli animali si rassegnavano.
Il terrore non è soltanto negli animali. E' nell'uomo. Appena ha visto apparire il «palo», lo yupa, L'UOMO HA CAPITO CHE DOVRÀ UCCIDERE QUEGLI ESSERI CHE, FINO A UN MOMENTO PRIMA, CAMMINAVANO COME LUI E ACCANTO A LUI. Gli toccherà prendere in mano la corda che immancabilmente è legata al palo. C'è un momento di paralisi. Allora la liturgia dice: «Sii audace, uomo!». Poi l'uomo procede, tenta di farsi coraggio. Anche questa volta, si appiglia alla teologia: quel nodo che le sue mani inavvertitamente stanno già preparando non è altro che «il cappio dell'ordine del mondo». Quanto alla corda, è la «corda di Varuna». E COME SE FOSSERO GLI DÈI AD AGIRE. E CON CIÒ SUGLI DÈI SI SCARICA LA COLPA. Nel momento critico - il momento in cui l'officiante lega l'animale al palo - OGNI PARTE DEL SUO CORPO È INVASA DA UN DIO, MEMBRO PER MEMBRO. ANCHE L'IMPULSO CHE LO FA AGIRE È ATTRIBUITO A SAVITR, CHE È L'IMPULSORE. Così egli dice: «Per impulso del divino Savitr io ti lego con le braccia degli Asvin, con le mani di Pùsan, te gradito ad Agni e Soma». CHI AGISCE È COME UN SONNAMBULO. COME ATTRIBUIRGLI LA COLPA?
Ma nulla basta mai per scaricarsi della colpa, nemmeno gli dèi. Così, pochi istanti dopo, il sacrificante sentirà il bisogno di chiedere il permesso di uccidere alla madre e al padre della vittima: «E possa tua madre consentire, e tuo padre...». Ma nemmeno questo basta. Allora il sacrificante aggiunge: «E tuo fratello, il compagno nell'armento». E con ciò intende: «Qualsiasi essere ti sia consanguineo, con la loro approva-
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zione ti uccido». Nulla meno dell'unanimità è ciò che ci è richiesto per uccidere.
Secondo lo Satapatha Bràhmana, non furono gli uomini a raggiungere, nel corso dei millenni, la posizione eretta, emancipandosi dalla loro vita di primati quadrupedi. Al contrario: gli uomini furono i soli a mantenere la posizione eretta, mentre tutti gli altri animali si rattrappirono e dovettero imparare a camminare a quattro zampe. Che cosa decise la loro sorte? Il sacrificio, quindi l'uccisione. Gli animali non riescono a mantenere la posizione eretta per paura dell'uccisione: hanno visto il palo, sanno che sono destinati a essergli legati, sanno che poi saranno uccisi. Gli uomini invece mantengono la posizione eretta perché sanno di essere i sacrificanti. E questo il discrimine che orienta il corso della storia umana.
A questo punto un coro di voci concordi ribadirà che la visione darwiniana ha soppiantato una volta per tutte il pensiero dello Satapatha Bràhmana, come se quest'ultimo fosse un preludio infantile e sconcertante alla scoperta di ciò che veramente è accaduto. Ma non è forse una insanabile amputazione eliminare la visione vedica? Non vi si offre forse alla conoscenza qualcosa che altrimenti rimarrebbe muto e ignorato? LA COMUNANZA FRA UOMO E MONDO ANIMALE TROVA QUI UN SUO FONDAMENTO INSCALFIBILE, che va ben al di là di ogni empatia. NON SONO PIÙ GLI UOMINI A ESSERSI EMANCIPATI DAI LORO COMPAGNI ANIMALI. MA GLI ANIMALI SI PRESENTANO COME ESSERI DECADUTI, CHE HANNO DOVUTO SOTTOMETTERSI ALLA CONDIZIONE DI VITTIMA. Una umanità illuminata potrebbe accogliere in sé al tempo stesso, con equanime lungimiranza, la visione di Darwin e la visione dei Bràhmana. Improbabile umanità.
«Allora egli indossa una veste, per completezza: di fatto egli così indossa la propria pelle. Ora quella stes-
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sa pelle che appartiene alla vacca in origine era sull'uomo.
« Gli dèi dissero: "La vacca sostiene tutto quaggiù; su, mettiamo sulla vacca quella pelle che ora sta sull'uomo: così sarà in grado di sostenere la pioggia e il freddo e il caldo".
«Di conseguenza, dopo aver scorticato l'uomo, posero la sua pelle sulla vacca, che con essa ora sopporta la pioggia e il freddo e il caldo.
«Così l'uomo venne scorticato; perciò quando anche un filo d'erba o qualcos'altro lo taglia, il sangue sgorga. Allora posero quella pelle, la veste, su di lui; e per questa ragione soltanto l'uomo indossa una veste, perché gli è stata messa addosso come una pelle. Perciò occorre fare attenzione a essere vestiti bene, in modo da poter essere totalmente rivestiti della propria pelle. Perciò la gente ama vedere anche una persona brutta vestita bene, perché è rivestita della propria pelle.
« Perciò egli non stia nudo in presenza di una vacca. Perché la vacca sa che essa indossa la pelle di lui e corre via per paura che egli voglia riprendersela. Perciò anche le vacche si avvicinano fiduciosamente a coloro che sono ben vestiti ».
Se si vuole un esempio di storia abissale nello stile dei Bràhmana questo potrebbe essere adatto. Soltanto Kafka, nei suoi racconti di animali e uomini, ha raggiunto una simile tensione. Qui il presupposto della storia è l'intera preistoria: il lungo periodo di faticosa, oscura differenziazione dell'uomo dagli altri esseri, che culminò quando si riuscì a raccogliere tutti questi esseri sotto una sola parola: animali. In quel periodo AVVENNE LA STUPEFACENTE, LENTISSIMA TRASFORMAZIONE DELL'UOMO DA PREDATO IN PREDATORE. La scoperta della dieta carnea: colpa originaria e impulso travolgente di sviluppo e accrescimento di potenza. Una storia troppo remota e troppo segreta per aver lasciato una qualche traccia verbale. Ma una storia che si è depositata nello strato meno accessibile della sensibilità di chiunque.
Rispetto alla vacca, come rispetto all'antilope - animale non sacrificabile (perché selvaggio), che però di-
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venterà l'animale araldico del sacrificio -, l'uomo sa di avere una colpa insanabile. E vero che «la vacca sostiene tutto quaggiù», ma in compenso l'uomo la scuoia. PER NUTRIRSI, L'UOMO UCCIDE UN ESSERE CHE GIÀ LO NUTRE. COSÌ ESTREMA È QUESTA COLPA CHE, PER PARLARNE, OCCORRERÀ INVENTARE UNA STORIA CHE NE ROVESCI I TERMINI. ALLORA L'UOMO TROVERÀ UNA GIUSTIFICAZIONE: nel suo tremore, nella sua incertezza, nel ricordo della sua inermità.
L'uomo è l'unico animale scorticato. E non già per natura - un tempo aveva anche lui una pelle -, ma perché gli dèi, in un certo momento, hanno deciso di scorticarlo e dare la sua pelle alla vacca. Questa è la vera storia dei primordi. Alla quale gli uomini furono costretti a risalire quando cominciarono a nutrirsi della carne della vacca e anche a scuoiarla. Per giustificarsi, l'uomo ha dovuto tenere vivo il ricordo di un'età in cui era un animale come tanti altri, protetto come tutti da una pelle. Poi è diventato un'unica piaga: «Essendo stato scorticato, l'uomo è una piaga; e, facendosi ungere, guarisce della sua ferita: perché la pelle dell'uomo è sulla vacca, e anche quel burro fresco viene dalla vacca. Egli [l'officiante] gli fornisce la sua pelle, e per questa ragione [il sacrificante] si fa ungere». Nel suo stato di derelizione, questo essere che non ha più difesa dal mondo ritrova, attraverso il burro che lo unge, la propria pelle: con quella benefica unzione la vacca restituisce all'uomo qualcosa di ciò che da lui ha ricevuto. Ne consegue, fra l'altro, che l'uomo è una sorta di reietto della natura. Basta un filo d'erba per farlo sanguinare. La sua unica possibilità di sopravvivere e sottrarsi a quell'eccesso di sofferenza che lo contraddistingue sta nell'artificio: l'unzione che ricopre il suo corpo, le vesti che formano una nuova pelle. A quel punto, grazie alla possente catapulta di pratiche ignorate da ogni altro essere, l'uomo potrà tornare a mescolarsi con la natura. Ma che non appaia nudo dinanzi alla vacca: l'animale ricorderebbe la crudele storia passata e fuggirebbe via, temendo di perdere la sua amata pelle. La vacca fugge l'uomo non già per paura di essere scorticata, ma perché un essere scor-
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ticato - l'uomo - potrebbe tentare di riappropriarsi della sua pelle, che ora adorna la vacca. C'è un insondabile imbarazzo, quando il corpo nudo dell'uomo si trova in mezzo ad animali: sentimento che è difficile negare, ma su cui non sembra si sia soffermata l'attenzione. Per i ritualisti vedici, invece, era la traccia di antichi e dolorosi eventi che ancora si ripercuotevano nel rito. E soprattutto: era il ricordo dell'unica giustificazione possibile nei rapporti con quei miti animali che accompagnavano la vita degli uomini nella pioggia, nel gelo e nella calura. Al tempo stesso occorre aggiungere che, nella lunga storia che separa i ritualisti vedici da Lord Brummell, mai sarebbe stata offerta una spiegazione così chiaroveggente dell'importanza dei vestiti. E mai sarebbe stata offerta una giustificazione più convincente del peculiare imbarazzo che è connesso, per gli uomini, alla nudità.
L'India vedica è l'unico luogo, nella storia del mondo, dove si sia posto il seguente quesito: perché è giusto che «l'uomo non stia nudo in presenza di una vacca»? Né gli antichi né i moderni sembrano aver avuto una preoccupazione del genere. Ma l'avevano i ritualisti vedici. I quali conoscevano anche la risposta: perché « la vacca sa che essa indossa la pelle di lui [dell'uomo] e corre via per paura che egli voglia riprendersela». E aggiungevano poi una deliziosa nota frivola, fondata su un'altra osservazione sconcertante: «Perciò anche le vacche si avvicinano fiduciosamente a coloro che sono ben vestiti». Forse soltanto Oscar Wilde, se l'avesse conosciuta, sarebbe stato in grado di commentare con autorevolezza questa motivazione del vestir bene.
Quanto ai ritualisti vedici, la suffragavano attraverso una storia che un giorno altri avrebbero forse definito un mito, ma che nelle loro parole suonava come una secca, anonima cronaca delle origini. Era cominciato tutto quando gli dèi, guardando alle cose della terra, si erano resi conto che LA VITA INTERA VENIVA SOSTENUTA DALLA VACCA. GLI UOMINI ERANO I SUOI PARASSITI. Qualcuno fra gli dèi - non sappiamo quale - esortò gli uomini a lasciare che la loro pelle fosse usata per ricoprire
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le vacche. Così gli dèi scorticarono l'uomo. Se si vuole risalire alle origini, questo è dunque lo stato naturale dell'uomo: lo Scorticato, come negli atlanti cinquecenteschi di anatomia. Al contrario degli ingenui positivisti, che nelle vetrine dei musei di storia naturale presentavano l'uomo dei primordi ancora coperto da un vello scimmiesco, i ritualisti vedici lo vedevano non già come il tracotante sovrano della creazione, ma come l'essere più esposto, più facilmente vulnerabile dal mondo esterno. Per loro,