mercoledì 23 maggio 2012

Giovanni Falcone. La mafia non è il frutto malato di una società sana, ma una realtà autonoma con leggi severe create al proprio interno. Dotata di una struttura verticistica, piramidale e unitaria

http://napoli.repubblica.it/cronaca/2012/05/23/news/falcone_l_ultima_intervista_cosa_nostra_pronta_a_colpire-35750453/

Falcone, l'ultima intervista. "Io, Cosa nostra e la camorra..."

Questa che riproponiamo è l'ultima testimonianza ufficiale del giudice antimafia. […]

di GIOVANNI MARINO

ROMA - "Cosa nostra non dimentica. Non l'ho mai concretamente vista come una piovra. La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante. Per questo bisogna fare in fretta e mettersi d' accordo sulla Superprocura, uno strumento essenziale per arginare l'espansione dei boss. Il nemico è sempre lì, in attesa, pronto a colpire. Ma noi non riusciamo neppure a metterci d' accordo sull'elezione del presidente della Repubblica...". […] fuori dall'ufficialità dell'intervista Falcone confessa il suo grande cruccio: le dure e continue polemiche sulla Dna, la Direzione nazionale antimafia, subito ribattezzata Superprocura, l'organismo centrale che dovrebbe coordinare le inchieste sulla criminalità organizzata in tutt' Italia.
[…] Tra i ricordi, un quadro del pittore Bruno Caruso che richiama l'estate dei veleni, le lettere anonime che gettarono discredito sul magistrato antimafia: sono disegnati il Corvo, la Talpa, il Falcone.
[…]  Giovanni Falcone, da poco più di un anno direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia, si sfoga subito: "Inutile farsi illusioni. Non credo che sarò io il superprocuratore. Ma non mi importa granché. Quello a cui tengo veramente è che la Dna nazionale entri al più presto in funzione. Che a guidarla possa essere io o il procuratore calabrese Agostino Cordova è davvero un dettaglio. Non c' è tempo da perdere, bisogna mettere da parte le guerre tra il Csm, l'Anm, il Guardasigilli, i partiti. Cosa nostra delinque senza soste, mentre noi litighiamo senza soste".
[…] Falcone insiste sulla Dna: "Critiche, polemiche strumentali, partiti un contro l'altro armati, che tristezza! Stiamo perdendo un'occasione storica per mettere in piedi una struttura moderna, funzionale; l'unica arma con la quale si può cercare di bloccare l'avanzata mafiosa. […]".
 […] Sullo schermo del televideo appare una dichiarazione di Achille Occhetto: il leader della Quercia si professa moderatamente ottimista su una prossima elezione del capo dello Stato. Falcone spegne la televisione, scuote la testa: "Tante parole, nessun fatto. Litigheranno ancora. Io il mio candidato ce l'avrei: Spadolini. Ma pare l'abbiano messo da parte durante le loro liti quotidiane". Falcone entra nel merito dell'intervista, definisce mafia e camorra: "La mafia non è il frutto malato di una società sana, ma una realtà autonoma con leggi severe create al proprio interno. Dotata di una struttura verticistica, piramidale e unitaria. Cosa nostra si fonda sull'assenza dello Stato in Sicilia, un vuoto colmato con regole alternative, elastiche nella loro apparente rigidità formale. Cosa nostra è come una chiesa, dispone di un ordinamento paragonabile a quello ecclesiale. E come la chiesa, sa rinnovarsi senza rinunciare alle propria fondamenta: non è un caso che il capo della Cupola, Michele Greco, sia stato soprannominato il Papa. La camorra, invece, priva di un'organizzazione verticistica, polverizzata in decine e decine di clan, non si oppone, ma vive dei buchi neri del Palazzo".

[…] Gli domando delle collusioni mafia-politica, camorra-politica. Falcone sorride, si abbandona sulla poltrona, allunga le braccia sulla scrivania: "Cosa nostra è autonoma rispetto alla politica. Il rapporto è alla pari. In parecchie occasioni addirittura di superiorità del boss sul colletto bianco. Mentre la camorra, abilissima ad infiltrarsi all'interno delle pubbliche istituzioni, vive ancora un rapporto subalterno con il politico, non certo di superiorità". […] Puntuali, le sue ultime risposte: "Cosa nostra è una pantera, l'immagine della potenza, della ferocia. La camorra è una volpe. Apparentemente non dotata di grandissima forza, ma intelligente, astuta e spietata al momento opportuno. Fanno paura camorra e mafia, non esistono graduatorie di pericolosità nel crimine organizzato. E' il momento di muoversi, di accantonare simpatie e antipatie, amici e nemici tra politici e magistrati. E' il momento della Superprocura. Perché la pantera è vigile e non dimentica. Mai".

g.marino@repubblica.it

Giovanni Falcone. Quando Giovanni Falcone spuntò all’orizzonte, la palude non capì immediatamente il terremoto che si approssimava: restò immobile («calati juncu ca passa la china») a scrutarlo, fiduciosa nella tradizione che voleva le sabbie mobili capaci di triturare anche il pasto più indigesto


13/05/2012 - FALCONE-BORSELLINO, 20 ANNI DOPO - SPECIALE

Giovanni Falcone, il giudice stratega 
che scoperchiò la palude di Palermo

Giovanni Falcone insieme a Paolo Borsellino: poco amato per il suo iperattivismo, fu persino accusato da colleghi e politici di narcisismo

Il magistrato sapeva collegare cose apparentemente distanti
tra loro. Grazie al suo "metodo"
riuscì a istituire il maxiprocesso

FRANCESCO LA LICATA
Nel 1979 il «Palazzaccio» di Palermo era una palude tranquilla che niente riusciva a smuovere: neppure i primi omicidi «particolari» che - con una brutta parola - venivano etichettati come «eccellenti», quasi a volerne sottolienare, insieme, la natura politica e la conseguente impossibilità a venirne a capo. Quando Giovanni Falcone spuntò all’orizzonte, la palude non capì immediatamente il terremoto che si approssimava: restò immobile («calati juncu ca passa la china») a scrutarlo, fiduciosa nella tradizione che voleva le sabbie mobili capaci di triturare anche il pasto più indigesto.

Erano già morti il colonnello Giuseppe Russo, abbattuto a Ficuzza insieme con l’amico insegnante Filippo Costa, il cronista giudiziario Mario Francese e il vicequestore Giorgio Boris Giuliano. La mafia di don Tano Badalamenti aveva messo in scena l’ignobile farsa dell’uccisione del militante Peppino Inpastato, contrabbandata per «incidente sul lavoro» di un terrorista rosso, così prospettata da ambigue indagini dei carabinieri e, infine, sottoscritta e rivendicata proprio dalla palude, attenta a che nulla di brutto fosse ascrivibile alla mafia. E così, mentre si raccoglievano i cadaveri e si piangeva quasi in privato, illustri ermellini si interrogavano sull’esistenza o meno della «cosiddetta mafia». Le cose cambiarono quando Giovanni Falcone sbarcò all’Ufficio istruzione, chiamato da Rocco Chinnici.

Non ci mise molto, la palude, a fiutare il pericolo. Quel magistrato di poche parole era una forza della natura, era capace di lavorare senza sosta forse anche per sfuggire al peso della recente delusione coniugale. Dormiva poco e macinava carte: assorbiva notizie e nozioni che presto trasformava in iniziative giudiziarie. Non sempre applaudito, come quando violò le discrete stanze delle banche, inseguendo il ritorno in Italia della valuta data in cambio dell’eroina raffinata a Palermo e spedita negli Usa.

La palude non gradì l’invasione di campo e ben presto le strade di Palermo furono attraversate da cortei sindacali che piangevano la morte dell’economia messa in pericolo da quel giudice troppo curioso ed anche un po’ arrogante, che non si assoggetava alla ragion politica.

Ma lui, Falcone, poco si curava della palude. Ne conosceva la pericolosità, ma tirava dritto. Ben attento a mantenere una distanza quasi fisica con quel mondo. Chiuso, barricato nel bunker del seminterrato, guardava fuori attraverso un videocitofono che selezionava i visitatori. «Vorrei parlare con lei, dottor Falcone», «E io no. Non ho tempo» era la risposta più frequente. Pochi cronisti ebbero la costanza che permettesse di superare il filtro. Ma una volta entrati in sintonia, ti parlava. Non per dare notizie sulle inchieste (era davvero impossibile strappargliene una soltanto). No, Falcone ti insegnava a mettere insieme cose apparentamente distanti tra di loro. Ti dava la chiave per cercare e trovare la linea sottile che legava gli avvenimenti della mafia sparsi anche su territori lontani.

Sarà questo, insieme con la «ricerca dei soldi», l’elemento fondante del suo «metodo». La capacità di sintesi, la mente aperta alla strategia lunga piuttosto che al risultato singolo e immediato, la forza di ipotizzare strumenti ancora non sperimentati (Buscetta e il pentitismo mafioso), la capacità di non fermarsi davanti al primo ostacolo e di superarlo con una «trovata» mai conosciuta.

Sono queste le qualità che hanno consentito a Giovanni Falcone di immaginare e realizzare il maxiprocesso contro Costa nostra: già, «u Maxi», il processone che sarà il simbolo indelebile del suo trionfo, ma anche l’inizio della sua fine. La palude non l’aveva messa nel conto, la realizzazione del maxiprocesso. Palermo, rassicurante, giurava che Falcone «lo sceriffo», il «Superman arrogante che si crede cissà chi», alla fine sarebbe naufragato sulle sue infinite carte. E invece no: il giudice riuscì a trovare le alleanze giuste (Gianni De Gennaro, Liliana Ferraro, Claudio Martelli sopratutti) per costruire l’aula bunker e scongiurare così il pericolo di un trasferimento del processo a Roma. Poi, mattone dopo mattone, mise in piedi il «mostro» che assicurava ai cittadini il giusto indennizzo per i lutti subiti: un processo in regola alla mafia intera e rinchiusa nelle gabbie. Quella mafia che, grazie alla sonnolenza della palude, nel frattempo aveva avuto modo di eliminare tutti i suoi peggiori nemici: Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici, Cassarà, Montana, Antiochia, Zucchetto, Libero Grassi, Terranova, Insalaco, Costa, Basile, D’Aleo e tutti gli altri che è quasi impossibile elencare.

Pochi aiutarono Giovanni Falcone. Molti, soprattutto colleghi frustrati dalla visibilità di quel giudice e politici non del tutto disinteressati, lo isolarono e lo avversarono. Lo etichettarono come comunista, lo indicarono democristiano amico di Andreotti, poi socialista, quando accettò di lavorare col ministro Martelli. Dissero che era persino pericoloso per la democrazia, con la sua ambizione sfrenata che lo portava anche ad inventarsi una superprocura tagliata su di sé. Lo criticarono pure quando scrisse un libro, definito ulteriore sintomo di narcisismo.

Questo dicevano di lui in vita, le stesse persone che, da morto, ne rivendicavano una inesistente amicizia. Per mettere le cose in chiaro, per separare gli amici veri dai falsi, la sorella Maria scrisse un libro («Storia di Giovanni Falcone») e un altro ne ha scritto a vent’anni dalla morte («Giovanni Falcone un eroe solo»).

Antonino Caponnetto, il capo dell’ufficio succeduto a Chinnici, e poi Paolo Borsellino, Pietro Grasso, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Lello, Giacomo Conte, Ignazio De Francisci, Giuseppe Ayala e Alfonso Giordano: questi i protagonisti che resero possibile l’impresa del maxiprocesso. Uomini che non si risparmiarono e non esitarono ad affrontare, da pionieri, insieme con Falcone, la strada impervia della lotta alla mafia, prima mai intrapresa. Ecco, se c’è una certezza nell’ambito della storia recente dell’antimafia è che Giovanni Falcone rappresenta la linea di confine tra il prima e il dopo la palude, una linea tracciata anche col sangue di Salvo Lima, l’eurodeputato andreottiano ucciso quando Cosa nostra decise di lasciare i vecchi amici politici per cercare nuove strade e nuove alleanze.

E il dopo è una battaglia condotta fino al sacrificio della propria vita, per il bene comune: Falcone e Borsellino, due eroi racchiusi in un solo nome. Amici nella battaglia, nelle delusioni e nelle vittorie esaltanti, uniti nel sacrificio finale. C’è da commuoversi ancora, ricordando Paolo Borsellino che rifiuta la via di fuga perchè «Lo devo a Giovanni e a tutti quei cittadini che credono in noi».

Ma chi li ha uccisi, Giovanni e Paolo? C’entra l’avversione della palude, l’ottusa difesa dei privilegi racchiusi nella via breve del «quieto vivere»? Certo, è stata la mafia, è stato Totò Riina e la sua accolita di assassini: non v’è brandello di indagine che non confermi questa paternità. E basta? Sono stati i «viddani» di Corleone a farsi terroristi più efficienti dei macellai di Bin Laden? Quale maestro ha insegnato loro a sventrare autostrade ed interi quartieri?

Sappiamo per certo che Falcone doveva essere assassinato a Roma, in un «normale» agguato mafioso, a colpi di arma da fuoco. Lo racconta il pentito Spatuzza che gli facevano la posta al ristorante «sbagliato»: lo cercavano al «Matriciano» mentre il giudice era solito cenare alla «Carbonara», in Campo dei Fiori. Ma all’improvviso Riina chiama la ritirata ed annuncia: «Si fa a Palermo e si fa con l’esplosivo». Perché questo cambiamento che dà all’azione il sapore, non più di una vendetta mafiosa, ma di una vera e propria intimidazione «politica» all’intero paese? Questa è la domanda che dovrà avere risposta. E Borsellino che muore, 57 giorni dopo, in piena «trattativa» fra Stato e mafia? Pure lui con l’esplosivo, perchè non si perdesse la continuità con Capaci. Borsellino muore e lo Stato tratta sul 41 bis e sulla possibilità di instaurare una tregua con Cosa nostra.

Poi c’è la mostruosità delle indagini su via D’Amelio: due pentiti assolutamente inventati depistano e raccontano un film inesistente. Uno di questi, Enzo Scarantino, si autoaccusa della strage. Perché? Chi gli suggerisce la versione sbagliata? Gli investigatori, certo. Uno di essi, Arnaldo La Barbera, il capo, è morto. Altri tre, o quattro, sono indagati ma si sa già che andranno in prescrizione. Rimarranno, dunque, inevase le domande: chi ha depistato e perché? Sono passati vent’anni e il risultato più eclatante è un processo (via D’Amelio) da rifare, seppure quello precedente fosse stato già archiviato con una sentenza della Cassazione. Ma forse sarebbe più giusto dire che di anni ne sono passati 23, perchè l’inizio di questo mattatoio risale al giungo del 1989 quando Cosa nostra lasciò un borsone pieno di esplosivo sotto la villa al mare di Giovanni Falcone, all’Addaura. Fu il giudice a sentenziare che era intervenuto il «gioco grande»: «Si è creata la convergenza di interessi tra mafia e oscuri ambienti.... Menti raffinatissime...». La palude stava sempre immobile e osservava.

Giovanni Falcone. Gli uomini passano, le idee restano.

Agostino Degas

Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. 
Giovanni Falcone

Agostino Degas:

Questa frase è generalmente attribuita a John Fitzgerald Kennedy; sembra che Falcone ne conservasse una copia nel proprio portafoglio (altri indicano invece come frase del ritaglio la citazione seguente). È riportata in una targa commemorativa deposta il 23 maggio 2002 al ministero della Giustizia. Tuttavia, il primo periodo appartiene a Camillo Benso, conte di Cavour, dalle Lettere edite ed inedite di Camillo Cavour, 1887.

martedì 22 maggio 2012

Grillo contro la Politica dei Morti Viventi



http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Notizie/Italia/2012/05/movimento-cinque-stelle-ansa-258.jpg?uuid=c66e90a6-a407-11e1-aaa9-19bb4da61f6b

Con Grillo il web diventa la nuova piazza politica. Ma avanza un dubbio: e se il profeta fosse eterodiretto?



Da alcuni anni sui simboli elettorali di quasi tutti i partiti politici appare, scritto ben in grande, il nome del leader. Sul simbolo del MoVimento 5 Stelle c'è invece un indirizzo internet[...] la grande popolarità del comico ligure, ha avuto nella Rete soltanto un'ulteriore consacrazione, ma è nata attraverso uno strumento assai più âgé, la televisione, e un altro canale che ha un po' più di duemilacinquecento anni, quel palco teatrale su cui, non troppi anni fa, un Grillo dai furori luddisti frantumava dei computer con impeto apotropaico.
http://adv.ilsole24ore.it/5/www.ilsole24ore.it/10/_02_010_/_notizie_/_italia/L18/1789912769/VideoBox_180x150/IlSole24Ore/Autopromo_SOLE_square/square_INVENDUTO_Sole.html/6c7a69626b3039755665494142713171?_RM_EMPTY_&
Nel frattempo, per il profeta del movimento politico stellato il computer si è trasformato dal Male al Bene. E la Rete è così presente nel discorso politico di Grillo e dei suoi seguaci da sembrare, più che un mezzo per fare una politica nuova, un fine della politica nuova. Dire quindi che il grillismo sia nato sul web non è corretto ed è invece un'approssimazione più vicina alla realtà dire che si è sviluppato sul web. Con l'ausilio, peraltro, di una copertura televisiva del fenomeno del M5S che negli ultimi mesi è stata piuttosto intensa, al netto del rifiuto di Grillo di partecipare ai talk show e del fatto che gli esponenti del movimento hanno ricevuto l'interdetto ad apparire sugli schermi, un diktat che d'altra parte non tutti hanno accolto con uguale entusiasmo. [...] La sede del M5S è virtuale, il sito beppegrillo.it; lo statuto, anzi il "non-statuto", riconosce alla "totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo"; le discussioni tra militanti si svolgono sulla piattaforma MeetUp; e anche le vittorie elettorali si festeggiano nella piazza di Facebook, nel campiello di Twitter e nello slargo di YouTube all'urlo virtuale di "Forza Belin!" digitato dal leader all'arrivo dei primi dati parmigiani.
Il sito beppegrillo.it primeggia da anni nelle classifiche delle pagine web in lingua italiana con più contatti, il profilo Facebook del comico-politico ligure ha ricevuto 860.000 "mi piace" e i suoi tweets hanno suppergiù 563.000 followers, cioè il doppio, il triplo o il quadruplo di quelli degli altri politici più cinguettoni, come Nichi Vendola, Antonio Di Pietro o Pier Luigi Bersani.
Se nel web il M5S ha trovato il suo metodo per farsi strada in un panorama politico piuttosto ingessato, proprio nel web ha trovato anche le prime grane. Si tratta dei guai della democrazia diretta, quando il numero delle persone che vi partecipa diventa molto (e forse troppo) grande. Infatti anche in un movimento che pretende di applicare metodi decisionali perfettamente orizzontali, benché l'orizzontalità sia viziata fin dalle origini dall'esistenza di un "profeta", alcuni semplici militanti diventano fisiologicamente dei capetti. Ma se la discussione interna avviene attraverso la tastiera di un pc o di uno smartphone, bastano pochi colpi di dito e pochi secondi per aggredire le ambizioni di chi assuma comportamenti leaderistici. Il rischio di cui si vedono già le avvisaglie – alcuni grillini hanno già defezionato, altri si sono spostati su posizioni critiche – è quello di raggiungere ben presto il tasso di litigiosità e di frazionismo proprio di un gruppuscolo trotzkista. Per non parlare della velocità di diffusione e della capacità di penetrazione attraverso la Rete di ogni teoria complottarda, in cui tra l'altro i grillini paiono piuttosto versati.
È il caso, ad esempio, del diffondersi di dubbi sulla figura del principale collaboratore di Grillo sul versante web, l'editore del suo sito e consulente strategico Gianroberto Casaleggio. Da tempo circola su quelle stesse autostrade comunicative internettiane percorse dal MoVimento 5 Stelle la nozione che Grillo sia ormai "controllato", "eterodiretto" e che la sua zazzera grigia e la sua voce tonitruante non siano altro che l'interfaccia di un software confezionato in stanze più segrete e da altre mani. [...]
Il MoVimento 5 Stelle ha per ora utilizzato con formidabile efficacia il web per la pars destruens, cioè per criticare l'esistente e farsi strada come alternativa. Già nella prima fase della pars costruens, e cioè l'individuazione dei candidati e il confezionamento dei programmi che rimangono perlopiù sul vago, ci sono state più frizioni tra i militanti. Ora che i grillini hanno anche responsabilità di governo e che quindi la pars costruens si fa più urgente, si vedrà se – al di là della promessa trasparenza, sempre attraverso la Rete, dell'attività degli eletti e della gestione dei soldi – il web sarà uno spazio esclusivo e altrettanto efficace di dibattito ed elaborazione politica. 

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-22/grillo-diventa-nuova-piazza-140734.shtml

lunedì 21 maggio 2012

USA Mangiar sa-NO. Una nazione che si sta distruggendo con la propria forchetta

Dall'Homo Scatulis all'Homo Fast Foodis
 http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/500gialla/hrubrica.asp?ID_blog=368

Ma da Detroit arriva una nuova tendenza green
CHIARA BASSO

Una nazione che si sta distruggendo con la propria forchetta. È questo quello che mi viene in mente guardandomi attorno. Magliette messe a dura prova da pance esorbitanti, rotoli di grasso che scappano dalla cintura (come i bordi di un muffin, dice un mio amico), donne prigioniere delle proprie cosce che non riescono quasi a camminare. Ma come sono arrivati a questo punto? Non dico nulla di originale se scrivo che gli americani hanno un pessimo rapporto con la bilancia. Anzi, per essere giornalisticamente precisi, il 68% di questa nazione è sovrappeso o obeso. La percentuale di adolescenti obesi è aumentata dal 5% del 1980 al 18% del 2008. L’altro giorno ho visto il documentario “The Weight Of The Nation”, il peso della nazione, sull’emittente HBO e ho scoperto che i bambini americani per la prima volta hanno un’alta probabilità di morire più giovani rispetto alla generazione dei propri genitori. E ciò, appunto, per questioni alimentari.

Ma dal momento che mi trovo sul campo per fare giornalismo consumando i copertoni dell’auto, se non proprio le suole delle scarpe come una volta, non me la sento di elencare sterili dati. E allora parliamo del problema partendo da un oggetto comune come un apriscatole. Ieri io e Stephanie, la collega francese che mi seguirà in quest’avventura fino a New Orleans, ci siamo concesse il primo pranzo decente da inizio viaggio. Gli altri giorni infatti, un po’ perché stiamo viaggiando con un budget ridotto e un po’ perché ci disgustavano i fast food da cui eravamo circondate, ci accontentavamo di farci delle insalate home-made comprando gli ingredienti al supermercato. Triste, lo so. Ma ci si adatta.
L’altra sera Stephanie ha comprato una scatola di tonno senza apertura facilitata. “Ma sei sicura che poi troviamo l’apriscatole?” chiedo. “Ma certo, ci sarà qualcuno che ce lo presta” risponde fiduciosa lei. E parte alla caccia al prezioso strumento. Torna dopo mezz’ora a mani vuote. Nessuno, tra motel, fast food vicini e perfino il benzinaio, aveva un apriscatole. E così, se fino a una generazione fa quest’oggetto era stigmatizzato come quintessenza di cattiva alimentazione e segno di pigrizia gastronomica, ecco che nell’evoluzione della specie americana l’apriscatole diventa quasi un oggetto di arte culinaria. Se ti avventuri a usarlo, vuol dire che hai intenzione di cucinare. Per l’americano medio è meglio andare in un fast food dove tutto è già pronto e costa poco. Se passi in un McDrive non devi nemmeno fare la fatica di scendere dall’auto. Ti allungano direttamente al finestrino un Sausage Burrito o un Sausage McMuffin da un dollaro l’uno.

E che gusto ha questo cibo ‘veloce’? Tutto è troppo salato, troppo dolce, troppo fritto. E il palato s’impigrisce, diventa insensibile ai sapori. Si inizia male fin dalla colazione dove ti vengono serviti cereali dai colori fosforescenti e cupcake dalle tinte forti, proprio come l’amanita muscaria, il fungo velenoso rosso a pallini bianchi. Perfino il cibo che ti sembra sano non lo è. L’altro giorno ho dimenticato delle fragole dentro la 500 gialla che è rimasta tutto il giorno al sole. Ho pensato: a questo punto ci farò la marmellata. E invece no. Erano tutte lì, rosse e carnose come non mai. Solo una, la più debole del gruppo, aveva un po’ di muffa. Mai vista in natura una cosa simile.

E le porzioni. Gigantesche. Allora ho provato a chiedere agli americani che cosa ne pensano. Da lunedì sto twittando su un account americano che fa parte di un movimento chiamato Rotation Curation. Sono stata invitata a essere il ‘curatore’ del loro account TweetWeekUSA per una settimana. Così il primo giorno ne ho approfittato per gettare un sasso in questo stagno virtuale che ancora non conoscevo. “Una delle prime cose che mi hanno colpito da quando mi sono trasferita in US sono le porzioni. Troppo grandi” ho twittato. Si è subito scatenata una tempesta di cinguettii. Alcuni inneggiavano al piatto pantagruelico, ma i più riconoscevano che effettivamente si era superata la misura via via negli anni.
Per fortuna esiste anche una contro-tendenza. Senza arrivare agli eccessi della California, dove integralisti del ‘mangiar sano’ si nutrono solo di cibo biologico e local e mai mangerebbero un pomodorino dalla provenienza dubbia, già in New York si possono trovare diversi supermercati con cibi bio (che poi, anche lì, bisognerebbe davvero indagare quanto biologici siano) e orti su rooftop con vista Manhattan. Ma, a sorpresa, anche in una città dall’animo profondamente industrializzato come Detroit si sta sviluppando un movimento che crede fortemente nel ritorno a un mangiar sano, naturale e in porzioni decenti. Ne è prova l’Eastern Market che ogni sabato su Russell Street richiama oltre 40mila persone da tutto il Michigan, ricchi e poveri, bianchi e neri. “Dopo lo sport, questo è l’unica occasione in cui veramente tutti gli abitanti di Detroit si ritrovano a Downtown” mi ha detto un’amica che vive in Motor City.

E per chi abita nel cuore di Detroit questa è anche l’unica occasione per trovare cibo fresco. Sotto le volte del mercato di pietra costruito nel 1891 ogni settimana si ritrovano 250 produttori indipendenti. Possono rappresentare piccole aziende agricole, fattorie degli Amish, coloro che alla modernità non hanno mai ceduto, ma si trovano anche famiglie come la ‘Bike Family’, come l’ho battezzata, ossia una coppia con bambino piccolo che coltiva ortaggi nel giardino di casa e li rivende spostandosi in bicicletta da un posto all’altro. In questo mercato si trova di tutto, dai formaggi alle fragole che marciscono come un tempo. E finalmente hai la sensazione che potresti anche fare a meno dell’apriscatole.
18/5/2012 - IN PONTIAC, ILLINOIS

domenica 13 maggio 2012

Borsellino e l'etica del combattente.


Paolo Borsellino, il pm malinconico
nella trincea dell'antimafia

Paolo Borsellino (in foto con Giovanni Falcone) anche in vacanza studiava carte e scriveva istruttorie

Pessimista, combatteva spinto
dalla forza della sua etica. 
Il suo capolavoro: i diciannove ergastoli nell'aula bunker

GIANNI RIOTTA
[...] È al Meli che prende la maturità classica nel 1958 Paolo Borsellino, 8 in italiano, greco, filosofia e fisica, 7 in latino, storia, matematica, chimica. [...] Così Borsellino, Dioscuro con Giovanni Falcone del pool antimafia di Palermo, si iscrive a Giurisprudenza [...]. Matricola 2301, simpatie per il Fuan «Fanalino», goliardi del Msi. Basta perché Falcone entri a volte nel suo ufficio, schioccando i tacchi: «Camerata Borsellino!».

Scherzano, il pool guarda al diritto non alla politica, quando si aggrega il magistrato Giuseppe Di Lello, vicino al Manifesto, è accolto con stima e amicizia. Di Lello è lo stratega, ha visione, Borsellino il tattico, sempre concreto. Racconterà di un caminetto «scomparso» da una villa che il pentito Buscetta cita accusando la famiglia Salvo. L’ispezione non lo trova e Borsellino fa a Falcone il gesto del suicidio «Spariamoci», senza prove niente processo. Un contadino li salva rivelando che, d’estate, il caminetto viene smantellato. Il destino del ragazzo del Msi si compirà simbolicamente nel 1992, con Gianfranco Fini che lo candida Presidente della Repubblica: riceve 47 voti.

Nei miei appunti di cronista a Palermo, dopo l’assassinio di Falcone, Paolo Borsellino è ricordato da un gesto: «Borsellino apre le mani grandi sulla bara di Falcone, allungata sotto i marmi del Palazzo di Giustizia. L’atrio è zeppo di gente, irata, dolente. Il gesto di Borsellino sembra svuotarla, sono di nuovo lui e l’amico Giovanni e basta, come all’oratorio di San Francesco della Kalsa, l’araba al Khalisa, la pura». Chi sta vicino si tira da parte, è il giuramento di un commilitone. Quando Borsellino cade con la scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, il 19 luglio, il taccuino ritorna sull’ex studente, diplomato al Meli, 18 anni dopo mio padre, 13 anni prima di me: «Capisco adesso che le mani di Borsellino piantate sulla bara di Falcone, come ad imprimere le impronte, quasi il coperchio di mogano fosse cemento fresco e palme e polpastrelli potessero restare stampati fino al giorno del giudizio, erano un appuntamento… la battaglia era perduta perché…nelle vere guerre, non c’è scampo: si vince o si muore. A lui tocca morire. Reso omaggio all’amico, si appoggia al muro di granito lucido, accenna a cercare una sigaretta, scuote la testa come se gli fosse venuta in mente una cosa che non si fa e dice due parole ai cronisti, più parlando a se stesso che altro: “È finita, non c’è nulla da fare, niente mezzi, niente indagini, no non credo... no, non credo... restare? Che cosa dovrei fare? C’è qualcosa d’altro che potrei fare?”». Falcone&Borsellino erano fratelli di epopea palermitana, Rinaldo e Astolfo, le anime opposte di una città, luce e vespro. Giovanni era sfrontato, audace, allegro, a tratti duro. Paolo malinconico, ironico, crepuscolare. Parlare con Falcone vi rendeva certi della vittoria nella battaglia antimafia. La stessa discussione con Borsellino lasciava sgomenti: la sconfitta era incombente per la sproporzione delle forze, solo l’etica imponeva di battersi. Altro che «professionisti dell’Antimafia», 60 milioni l’anno, 30.000 euro di oggi. Lo scrittore Leonardo Sciascia, indotto all’inopportuna polemica, mi disse «Fui mal consigliato». Al magistrato restò l’amarezza «Si voleva eliminare il lavoro di Falcone».

Diego Borsellino, papà di Paolo, era farmacista in via della Vetreria, educazione all’antica. Falcone era il «Barone Rosso», eroe popolare. Con le fatiche a Enna, Mazara, Monreale, Palermo, Trapani e Marsala, Borsellino è il fante da trincea: «Ho fatto le vacanze all’Asinara, nel 1985, per stendere con Giovanni le ultime pagine dell’istruttoria per il maxiprocesso». Distilla la malinconia in humor alla Buster Keaton: «Giovanni, devi darmi la combinazione della cassaforte, così quando ti ammazzano la apro, altrimenti come faccio?». Gli inviati dei giornali del Nord restano confusi dai macabri scherzi dei palermitani, pronosticarsi a vicenda i necrologi sul «Giornale di Sicilia». [...]

[...] Il capolavoro è il maxiprocesso, 19 ergastoli, 2665 anni di carcere. Poi Borsellino vede avvizzire le speranze di Falcone di guidare il pool, e conclude presago «Restammo soli. Andando sul luogo dove era caduto il commissario Montana, il vicequestore Cassarà mi aveva detto “Siamo cadaveri che camminano”». Cassarà ucciso nel 1985, Falcone e Borsellino nel 1992.

Otto settimane prima della strage di via D’Amelio Borsellino conferma a Canal+: «All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa… addirittura monopolistica, nel traffico di sostanze stupefacenti... Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco…perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò… ad effettuare investimenti…una via parallela…all’industria operante anche nel Nord».

Via D’Amelio apre un capitolo mai chiuso, trattativa Stato-Mafia, l’«agenda rossa» scomparsa del giudice, la Prima e la Seconda Repubblica. Paolo Borsellino vive gli ultimi giorni con stoica rassegnazione, conscio dei veleni e delle viltà che lo circondano, non solo tra i mafiosi. [...] Un politico siciliano ha proposto di cancellare il nome di «Falcone e Borsellino» dall’aeroporto di Palermo temendo allontani i turisti: sbaglia, il mondo ama i nostri eroi Paolo e Giovanni.




venerdì 2 marzo 2012

La dissidente e l'oligarca "Com'era bella Mosca..."


La dissidente e l'oligarca 
"Com'era bella Mosca..."

Michail Borisovic Chodorkovskij, 49 anni, è stato arrestato nel 2003, quando la sua Yukos era tra prime compagnie petrolifere del suo Paese. Ljudmila Ulickaja, 69 anni: di formazione genetista, è oggi la più autorevole scrittrice russa. I due hanno una nostalgia comune per Mosca, una città perduta, oggi troppo violenta, sporca, commercializzata e deturpata

Ljudmila Ulickaja e Michail Chodorkovskij si sono confrontati a distanza e 
hanno scoperto insospettabili affinità. Pubblicato il loro carteggio

ANNA ZAFESOVA
Un’intellettuale e un oligarca. Un’anticomunista e un reduce del Komsomol. Una dissidente e un uomo che fin da piccolo sognava il potere. Due persone divise da tutto, dall’età alla distanza, e soprattutto dal filo spinato, che senza essersi mai incontrate si scoprono, si confrontano, quasi si seducono. Il carteggio tra Ljudmila Ulickaja e Michail Chodorkovskij, la scrittrice più autorevole e il detenuto più famoso della Russia - pubblicato, insieme con numerosi articoli, interviste e altri documenti dell’oligarca nel volume La mia lotta per la libertà , appena uscito da Marsilio - a tratti sembra essere preso di peso da un romanzo russo dell’800, ma è cronaca e attualità di un Paese abituato alla tragedia, e a produrne quasi automaticamente letteratura.

È lei a cercarlo, nel 2008, incuriosita da questo oligarca a quel punto in carcere da cinque anni per aver sfidato Putin. «Odio i ricchi», gli confessa subito, nella prima lettera, e lui le risponde canzonando i suoi pregiudizi «tipici di una parte considerevole della nostra intellighenzia». Dissidente all’epoca sovietica, Ulickaja è però parte fiera di un’élite che disprezza l’accumulazione primitiva, ma questo magnate che ha finanziato scuole, asili, orfanotrofi, programmi di istruzione la stupisce, e la stupisce ancora di più la sua scelta di sfidare il potere, e pagarla. E il Gulag, un’esperienza che è nel Dna di quasi tutti i russi (nel caso della scrittrice, i nonni detenuti all’epoca staliniana e gli amici dissidenti arrestati negli Anni 60), rende questo «ricco» un essere umano, anzi, gli attribuisce una statura morale superiore. «Per la letteratura russa il tema del carcere è fondamentale», gli scrive, e lui le risponde citando l’eterno dibattito tra Varlam Shalamov e Aleksandr Solzenicyn, e prendendo le parti del primo nell’affermare che nella prigione non c’è nessuna esperienza positiva, «è il luogo dell’anticiviltà, dove il bene è male, la falsità verità».

Un primo scambio dal quale, tra discussioni su Voltaire, Dostoevskij e Platone, parte un dialogo appassionato, dove lei interroga e lui risponde, in un tentativo di scoprire i «valori» che possono accomunare due persone così diverse. Ed è un susseguirsi di sorprese, dove Ulickaja scopre nel magnate, visto come il simbolo del «capitalismo selvaggio» postcomunista, un uomo molto più «sovietico» di lei, che fin da piccolo sognava di fare il direttore di fabbrica, perché «era la persona più importante». Lei cerca di giustificare la sua sfida a Putin con l’educazione dei genitori, piccola intellighenzia moscovita, ma lui tronca le sue aspettative: «Non amavano affatto il potere sovietico», ma cercavano di non comunicare questo sentimento al figlio altrimenti «mi avrebbero rovinato la vita». A scuola, all’università e nel Komsomol vive una vita dove le «mosche bianche», come Ulickaja e i suoi amici, non ci sono. La scrittrice resta quasi scandalizzata da questo capitalista che si racconta come «un bravo e “ortodosso” membro del Komsomol» che non nutriva «alcun dubbio su chi fossero gli amici e i nemici». Al punto da scegliere consapevolmente una facoltà legata all’industria bellica perché la cosa più importante era «difendersi dai nemici esterni».

Di Chodorkovsky alla scrittrice non dovrebbe piacere nulla: il suo passato da «sovietico», la sua ambizione - «più che l’ideologia contava il desiderio di essere un leader», confessa lui -, il suo conformismo. Cerca di farsi dire che si «mimetizzava» per sopravvivere e, ricevuta la smentita, conferma: «Lei apparteneva di sicuro a quella cerchia di persone con cui io, a voler essere indulgenti, non avevo rapporti d’amicizia», gli scrive nelle lettere che manda nella prigione siberiana. Eppure si accorge che «più passava il tempo» e più le piaceva questo strano oligarca che sublima le illusioni perdute verso il comunismo nell’idea dello Stato sociale e nella determinazione a «spendere la propria vita per almeno avvicinare il sogno» delle pari opportunità per tutti. Si ritrovano nella nostalgia comune per una Mosca perduta, oggi troppo violenta, sporca, «commercializzata» e deturpata, ma lui la sconvolge di nuovo dichiarandosi patriota russo («la farà ridere») e «statalista», addirittura promotore di un ritorno alla pianificazione. Lei lo contesta, lui cerca di convincerla che quelli dall’altra parte - comunisti o oligarchi che fossero possono avere le loro ragioni: «Comprendere e perdonare», è la lezione che raccoglie nel carcere. E lei gli risponde con la speranza che un giorno tornerà a battersi per le sue idee, e ne discuteranno insieme, «davanti a una tazza di tè.