venerdì 2 marzo 2012

La dissidente e l'oligarca "Com'era bella Mosca..."


La dissidente e l'oligarca 
"Com'era bella Mosca..."

Michail Borisovic Chodorkovskij, 49 anni, è stato arrestato nel 2003, quando la sua Yukos era tra prime compagnie petrolifere del suo Paese. Ljudmila Ulickaja, 69 anni: di formazione genetista, è oggi la più autorevole scrittrice russa. I due hanno una nostalgia comune per Mosca, una città perduta, oggi troppo violenta, sporca, commercializzata e deturpata

Ljudmila Ulickaja e Michail Chodorkovskij si sono confrontati a distanza e 
hanno scoperto insospettabili affinità. Pubblicato il loro carteggio

ANNA ZAFESOVA
Un’intellettuale e un oligarca. Un’anticomunista e un reduce del Komsomol. Una dissidente e un uomo che fin da piccolo sognava il potere. Due persone divise da tutto, dall’età alla distanza, e soprattutto dal filo spinato, che senza essersi mai incontrate si scoprono, si confrontano, quasi si seducono. Il carteggio tra Ljudmila Ulickaja e Michail Chodorkovskij, la scrittrice più autorevole e il detenuto più famoso della Russia - pubblicato, insieme con numerosi articoli, interviste e altri documenti dell’oligarca nel volume La mia lotta per la libertà , appena uscito da Marsilio - a tratti sembra essere preso di peso da un romanzo russo dell’800, ma è cronaca e attualità di un Paese abituato alla tragedia, e a produrne quasi automaticamente letteratura.

È lei a cercarlo, nel 2008, incuriosita da questo oligarca a quel punto in carcere da cinque anni per aver sfidato Putin. «Odio i ricchi», gli confessa subito, nella prima lettera, e lui le risponde canzonando i suoi pregiudizi «tipici di una parte considerevole della nostra intellighenzia». Dissidente all’epoca sovietica, Ulickaja è però parte fiera di un’élite che disprezza l’accumulazione primitiva, ma questo magnate che ha finanziato scuole, asili, orfanotrofi, programmi di istruzione la stupisce, e la stupisce ancora di più la sua scelta di sfidare il potere, e pagarla. E il Gulag, un’esperienza che è nel Dna di quasi tutti i russi (nel caso della scrittrice, i nonni detenuti all’epoca staliniana e gli amici dissidenti arrestati negli Anni 60), rende questo «ricco» un essere umano, anzi, gli attribuisce una statura morale superiore. «Per la letteratura russa il tema del carcere è fondamentale», gli scrive, e lui le risponde citando l’eterno dibattito tra Varlam Shalamov e Aleksandr Solzenicyn, e prendendo le parti del primo nell’affermare che nella prigione non c’è nessuna esperienza positiva, «è il luogo dell’anticiviltà, dove il bene è male, la falsità verità».

Un primo scambio dal quale, tra discussioni su Voltaire, Dostoevskij e Platone, parte un dialogo appassionato, dove lei interroga e lui risponde, in un tentativo di scoprire i «valori» che possono accomunare due persone così diverse. Ed è un susseguirsi di sorprese, dove Ulickaja scopre nel magnate, visto come il simbolo del «capitalismo selvaggio» postcomunista, un uomo molto più «sovietico» di lei, che fin da piccolo sognava di fare il direttore di fabbrica, perché «era la persona più importante». Lei cerca di giustificare la sua sfida a Putin con l’educazione dei genitori, piccola intellighenzia moscovita, ma lui tronca le sue aspettative: «Non amavano affatto il potere sovietico», ma cercavano di non comunicare questo sentimento al figlio altrimenti «mi avrebbero rovinato la vita». A scuola, all’università e nel Komsomol vive una vita dove le «mosche bianche», come Ulickaja e i suoi amici, non ci sono. La scrittrice resta quasi scandalizzata da questo capitalista che si racconta come «un bravo e “ortodosso” membro del Komsomol» che non nutriva «alcun dubbio su chi fossero gli amici e i nemici». Al punto da scegliere consapevolmente una facoltà legata all’industria bellica perché la cosa più importante era «difendersi dai nemici esterni».

Di Chodorkovsky alla scrittrice non dovrebbe piacere nulla: il suo passato da «sovietico», la sua ambizione - «più che l’ideologia contava il desiderio di essere un leader», confessa lui -, il suo conformismo. Cerca di farsi dire che si «mimetizzava» per sopravvivere e, ricevuta la smentita, conferma: «Lei apparteneva di sicuro a quella cerchia di persone con cui io, a voler essere indulgenti, non avevo rapporti d’amicizia», gli scrive nelle lettere che manda nella prigione siberiana. Eppure si accorge che «più passava il tempo» e più le piaceva questo strano oligarca che sublima le illusioni perdute verso il comunismo nell’idea dello Stato sociale e nella determinazione a «spendere la propria vita per almeno avvicinare il sogno» delle pari opportunità per tutti. Si ritrovano nella nostalgia comune per una Mosca perduta, oggi troppo violenta, sporca, «commercializzata» e deturpata, ma lui la sconvolge di nuovo dichiarandosi patriota russo («la farà ridere») e «statalista», addirittura promotore di un ritorno alla pianificazione. Lei lo contesta, lui cerca di convincerla che quelli dall’altra parte - comunisti o oligarchi che fossero possono avere le loro ragioni: «Comprendere e perdonare», è la lezione che raccoglie nel carcere. E lei gli risponde con la speranza che un giorno tornerà a battersi per le sue idee, e ne discuteranno insieme, «davanti a una tazza di tè.