giovedì 27 ottobre 2011

Abbiamo tradito il Gange - L'uomo ha tradito la sua natura

Abbiamo tradito il Gange

Esistiamo grazie alla generosità del fiume. Io stessa, come miliardi di persone, sono nata su questo fiume. Ho imparato a parlare, a leggere, a sopravvivere su queste rive...Perché ora lo stiamo tradendo?
di VANDANA SHIVA, foto GIULIO DI STURCO

Il Gange è molto più di un fiume. Rappresenta l'essenza stessa dell'India, ne racconta la vita spirituale, culturale, ecologica ed economica. Senza il Gange l'India non potrebbe materialmente sopravvivere, non sarebbe neanche nata, perché la nostra millenaria storia si è sviluppata attorno, dentro e grazie al Gange. Esistiamo grazie alla generosità del fiume. Io stessa, come miliardi di persone, sono nata su questo fiume. Ho imparato a parlare, a leggere, a sopravvivere su questo fiume. Anche i nostri morti, se ne vanno via con lui.

Restando parte di una storia che il Gange scrive ogni giorno, con ciascuno di noi singolarmente e tutti assieme.
E poi, ingannandoci, lo abbiamo tradito. Abbiamo cominciato a farlo quando ci siamo convinti che per essere più ricchi ci servivano più cose. Abbiamo avvelenato il Gange con gli scarichi industriali, che generano cose che non vivranno mai abbastanza per ripagarci della perdita del fiume. Lo abbiamo soffocato con megalopoli senza anima. Lo abbiamo strozzato con dighe e interventi che gli hanno imprigionato l'anima, per ottenere più elettricità. Per accendere una luce oggi, spegniamo il futuro. Il movimento per salvare il Gange e il flusso delle sue acque non è solo un movimento per salvare un fiume. Si tratta di un movimento per salvare l'anima travagliata dell'India, che è inquinata e soffocata da un consumismo crasso e dall'avidità, scollegato dalla sua esistenza in armonia con la natura e dalle sue fondamenta culturali. Per questo ci battiamo, per questo organizziamo i campi di lavoro con i giovani, sul fiume, per la democrazia dell'acqua. Per ricordare loro da dove veniamo e che non saremmo qui, oggi, senza il fiume Gange. E non ci saremo domani, senza il Gange.

GUARDA IL REPORTAGE FOTOGRAFICO DI GIULIO DI STARCO
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Capita qui, sul Gange, ma i nostri fiumi raccontano la storia dell'umanità. Per questo quella dell'acqua è una questione popolare. Il dibattito, se limitato alla dialettica pubblico-privato, gestione corretta o sbagliata, economica o no, è fuorviante. Si sbaglia approccio e si negano i diritti delle comunità interessate. Qualsiasi comunità, in qualsiasi parte del mondo, se interpellata sull'acqua, chiederà che venga tutelata e basta. Né comprata né venduta. Solo conservata, protetta. Anche perché non basta impedire la privatizzazione per salvare i fiumi, l'acqua e il futuro. Il primo passo della privatizzazione è l'inquinamento. Pochi che distruggono l'anima della terra per diventare più ricchi. Se non proteggiamo l'ambiente, pur impedendo la privatizzazione dell'acqua, come avete fatto con coraggio in Italia con il referendum, non la salveremo. E un fiume morto, pubblico o privato, non torna più.

Credo che la consapevolezza lentamente cresca. Rispetto al 2003, quando ho scritto Le guerre dell'acqua, vedo un atteggiamento differente. Tante persone che all'epoca, quando denunciavo l'attacco all'acqua, mi accusavano di esagerare ora lottano con me. Ed è cambiata, lentamente, anche la consapevolezza politica. Il referendum in Italia, per esempio, oppure le costituzioni di alcuni Stati latinoamericani, che hanno inserito il diritto all'acqua come un punto fermo. E ancora la Dichiarazione dei diritti della Madre Terra, piuttosto che il lavoro delle Nazioni unite per arrivare, finalmente, al riconoscimento dell'accesso all'acqua come diritto umano.
Tanta strada, tante lotte, sono state fatte. Ma non basta. Perché guardando queste foto, l'agonia del fiume Gange, si vede un mondo che muore, non solo un corso d'acqua.
(26 ottobre 2011)

lunedì 10 ottobre 2011

Come il cancro è divenuto l'imperatore del male

Come il cancro
è diventato «l'imperatore del male»

Un ricercatore indiano vince il premio Pulitzer raccontando la battaglia degli uomini contro i tumori

IL LIBRO
Come il cancro
è diventato «l'imperatore del male»
Un ricercatore indiano vince il premio Pulitzer raccontando la battaglia degli uomini contro i tumori

Siddharta Mukherjee, vincitore del Pulitzer
MILANO - Nel 2010 più di 7 milioni di persone nel mondo sono morte di tumore. Circa il 15% dei decessi totali. È con queste cifre, un vero e proprio bollettino di guerra, che si apre il monumentale libro di un oncologo americano di origine indiana dedicato alla «madre di tutte le malattie». Un'opera che è prima di tutto un mosaico di storie, a volte insolite, altre ancora conosciute, sempre drammatiche. Una serie di tappe esaltanti e crudeli in cui non esistono comprimari: anzi, proprio come in un romanzo corale, qui tutti sono protagonisti. Con «L'imperatore del male. Una biografia del cancro» (Neri Pozza 2011), Siddharta Mukherjee si è aggiudicato il Premio Pulitzer per la saggistica - forse la più prestigiosa onorificenza letteraria americana - e l'inserimento nella lista del New York Times tra i 10 migliori libri dell'anno. Chi l'avrebbe detto non molto tempo prima, quando, dopo un paio d'anni da borsista al Massachusetts General Hospital di Boston, il giovane ricercatore si ritrovò a porsi una serie di domande angoscianti, nate dall'osservazione diretta di aspettative e sofferenze sul volto dei pazienti? Dov'era cominciata questa storia?
Per capirlo bisognava fare un lungo passo indietro. Nel 1862, un mezzo truffatore e sedicente egittologo acquistò, o forse sgraffignò, un papiro da un antiquario di Luxor. Il papiro venne datato al diciassettesimo secolo a.C., classificato come la trascrizione (piuttosto frettolosa, a dire il vero, visto che era zeppa di errori) di un manoscritto risalente addirittura al 2500 a.C., ma fu tradotto solo nel 1930. A quanto pare conteneva gli insegnamenti di Imhotep, medico egiziano vissuto intorno al 2625 a.C., un po' visir e un po' neurochirurgo, mezzo architetto e mezzo astrologo. Un personaggio di stampo quasi rinascimentale, avvicinato dai greci alla grandezza di Esculapio. Più che lezioni, però, la pergamena conteneva la semplice descrizione di 48 casi, cioè malattie. Con tanto di diagnosi, anamnesi e prognosi. Era nel caso 45 che Imhotep raccontava un episodio di problemi "al petto, rigonfiamenti grossi, diffusi e duri; toccarli è come toccare una palla di stracci". Paragonabili a un frutto acerbo, continuava, "freddo e duro al tatto". Probabilmente si trattava della prima descrizione di cancro al seno. Ogni altra malattia era seguita da un'ipotesi di terapia. Solo nel caso 45 Imhotep taceva. Ci sarebbero voluti altri duemila anni per ritrovare qualcosa che potesse assomigliare al cancro, stavolta nelle «Storie», risalenti al 440 circa, in cui Erodoto raccontò la figura di Atossa, moglie di Dario e regina di Persia, che si accorse di un nodulo al petto, forse causato da un cancro al seno. La sua reazione, racconta lo storico, fu di trincerarsi dietro al silenzio e alla solitudine, nascondendo il corpo per la vergogna. In realtà erano testimonianze ambigue, forse inaffidabili.
Sembrerà assurdo, ma per arrivare al primo caso accertato di cancro nell'antichità bisogna aspettare fino al 1990, quando furono analizzati i resti mummificati di un'intera tribù, rinvenuti in un sepolcro vecchio di mille anni nel deserto peruviano di Atacama. Un paleopatologo «visitò» a distanza di ere una donna sulla trentina, trovata seduta in una tomba d'argilla, riscontrando una massa bulbosa sotto l'ascella. La diagnosi fu di osteosarcoma. I casi antichi, in sostanza, si contavano sulla punta delle dita. Ma perché? Proprio da qui bisognava partire per ricostruire la vicenda di una malattia che è considerata moderna per un motivo semplice: per imporsi statisticamente ha dovuto aspettare che l'essere umano allungasse l'aspettativa di vita e che la malattia trovasse una propria identità. Il crudele paradosso della bile nera, come lo chiamava Galeno, è questo: solo con il progresso della civiltà ha guadagnato una visibilità che l'ha resa, appunto, «l'imperatore del male». Eliminate le altre cause di decesso, ecco emergere un antico morbo connaturato alla società, che genera un macabro controsenso: «Se cerchiamo l'immortalità» chiosa l'autore «in maniera alquanto perversa, la cerca anche la cellula tumorale».
La contraddizione insita in quello che Ippocrate in greco aveva battezzato karkinos, per la somiglianza a un granchio, ha stimolato questo oscuro ricercatore dal nome rasserenante (e magari incongruo, visto l'argomento trattato) a esplorarne la biografia per restituirci il senso di una battaglia dolorosa e avvincente. La medicina comincia con un racconto, scrive. E così, con sguardo analitico ma sempre compassionevole, Mukherjee riporta una vicenda di errori e scoperte, di eroi inconsapevoli e involontari sacrifici. Accantonati Imhotep e Erodoto, si va dalla chirurgia radicale praticata da William Stewart Halsted nell'Ottocento ai primi rocamboleschi tentativi con i raggi X, dalle scoperte di Paul Ehrlich sul passaggio nell'uso dei coloranti dai tessuti alle cellule viventi fino agli esiti inaspettati dell'agghiacciante bombardamento di Ypres, passando per il ruolo di un bambino soprannominato Jimmy nella raccolta fondi che fece uscire la malattia dall'oscurità e diede il via all'intervento della politica e all'impegno verso la prevenzione.
Non manca un ruolo italiano, grazie alle pagine su Gianni Bonadonna e Umberto Veronesi, che nel 1973 all'Istituto dei Tumori di Milano diedero un contributo più che rilevante alla ricerca, avviando un trial per studiare gli effetti della chemioterapia adiuvante sul cancro al seno allo stadio iniziale. Un esperimento riuscito che, in un momento di profonda spaccatura tra chirurghi e chemioterapisti, sbalordì la comunità scientifica. Eppure la storia di questa malattia non è solo quella dei medici, ma è anche quella dei pazienti che si battono e sopravvivono, passando da uno stadio della malattia all'altro. «La capacità di recupero, l'inventiva, e la volontà di sopravvivere» racconta Mukherjee «sono qualità riflesse, che emanano dapprima da chi lotta contro la malattia e solo dopo sono rispecchiate da chi cura la malattia». Sommersi, salvati e salvatori sembrano tutti tendere a un unico fine. Invisibile, eppure onnipresente.
Forse per questo, quando l'autore del libro va a trovare - in mezzo a un paesaggio mozzafiato di laghi cristallini e betulle a perdita d'occhio, in un angolo remoto del Maine - una dei pochi pazienti sopravvissuti molti anni prima a una terapia sperimentale, lei riesce solo ad ammettere il senso di colpa: «Non so perché meritassi la malattia, ma non so nemmeno perché abbia meritato di guarire». Quella donna forse non conosceva il significato di una parola che ha unito la propria storia a quella del cancro: onkos, che in greco voleva dire "massa" o "carico". Quel peso, passato di mano in mano come una terribile fiaccola, è il protagonista di un racconto che riguarda la sopravvivenza di tutti. La nostra, come quella della regina Atossa, migliaia d'anni fa.
http://www.corriere.it/salute/sportello_cancro/11_ottobre_10/cancro-imperatore-male-rossari_c2e1bedc-f03d-11e0-afdf-a2af759d2c3b.shtml
Marco Rossari
10 ottobre 2011

venerdì 7 ottobre 2011

Steve Jobs - Un buddhista virtuale

Un buddhista virtuosamente virtuale


Steve Jobs ha lasciato questo mondo. Quantomeno con il corpo fisico, che non ce l’ha fatta a resistere al cancro. Virtualmente infatti resterà ben presente nella rete, dove sarà giustamente celebrato e citato finché esisterà una qualunque forma di comunicazione umana sulla terra. Già in vita è stato un guru, figurarsi in morte, con il frutto del suo lavoro che è ormai storia del mondo.
Uno degli aspetti che mette questo blog in relazione a Steve Jobs è il suo rapporto con l’Oriente, e specialmente con l’India e il Giappone buddhista. E’ una pagina finora ben poco raccontata della sua vita. Paul Freiberger e Michael Swaine ne accennano nel loro “Fire in the Valley: The making of the personal computer”. Per capire l’apertura visionaria del genio dei Mac e degli IPhone, gli autori ricordano tra gli altri il viaggio di Jobs e del suo amico Dan Kottke nel ’73 in India, quando l’inventore di Apple aveva appena 18 anni e cercava qualcosa in Asia che non trovava a San Francisco.
Da sempre si era dedicato alla lettura della filosofia occidentale e orientale, e il suo itinerario nella terra dei Gandhi e  della nascente High Tech di Bangalore fu soprattutto spirituale: si rasò la testa e finì in un ashram induista, il Kainchi sulle Kumaon Hills in Uttar Pradesh.
L’amico Kottke ha definito quell’esperienza “un lungo pellegrinaggio interiore”. “Eccetto – ha aggiunto – per il fatto che fuori non sapevamo dove stavamo andando”. La storia dirà che Steve e Dan volevano incontrare nel suo convento dell’UP un celebre maestro induista, Neem Karoli Baba  http://www.neebkaroribaba.com/), che aveva già parecchi discepoli occidentali e oggi è ancora venerato da celebrità, come Julia Roberts. Ma all’arrivo dei due amici il sant’uomo se n’era appena andato all’altro mondo. Era il settembre del 1973.
Jobs tornò negli Stati Uniti e mentre continuava a cercare l’oltremondano anche nelle droghe sintetiche come l’LSD (“una delle tre esperienze più importanti della mia vita”, disse) si mise a seguire seriamente il buddhismo Zen, che insegna a concentrare e rilassare la mente sulla natura vuota e transitoria di tutti i fenomeni. Una drastica virata dalla direzione presa in India con una religione che crede nella esistenza di un Dio creatore eterno. Il suo maestro fu il giapponese Kobun Chino Otogowa, un discepolo diretto del celebre Shunryu Suzuki, tra i primi a rendere popolare il Soto Zen in California anche tra gli occidentali come Jobs, nato a San Francisco.
Steve Jobs prese a sedersi sempre più spesso davanti a un muro bianco in posizione di meditazione o zazen con Kobun Chino e altri giovani studenti americani della post beat generation. Fu probabilmente molto preso da questa scoperta, visto che si sposò con un rito giapponese celebrato da Kobun, e il suo maestro dovette faticare non poco per convincerlo a non diventare monaco. Gli disse di praticare Medit Azione, ovvero agire riflettendo. Per Jobs voleva dire non sprecare in un monastero la sua idea già avanzata di applicazioni hardware e software basate proprio sui principi dell’essenzialità zen, dalle forme delle icone illustrative al logo della mela morsa.
Il creativo scomparso di certo non applicò solo il buddhismo, ma molte altre filosofie e sue personali attitudini meditative che aveva scoperto lungo il percorso. Però dicono che ogni mattina finché ce l’ha fatta, sia che piovesse sia che bruciasse l’asfalto, ha camminato a piedi nudi attorno al grattacielo di casa. Portava l’attenzione sui passi alla maniera zen, per lasciare che il corpo misurasse la terra e i movimenti. Poi rientrava e dopo una doccia via al lavoro su qualche nuova idea percepita anche grazie a quei piedi. Concentrandosi su di essi,  impediva alla sua mente di volare troppo in alto col rischio di perdere contatto con i limiti delle tecnologie umane.
Dicono i suoi fratelli di fede che le azioni compiute in questa vita si svilupperanno nelle prossime sotto diverse forme. Di certo, per il bene che ha fatto semplificando la vita a milioni di persone, in alto saranno clementi e forse stavolta non lo rimanderanno di nuovo nel girone infernale del listino Nasdaq.

giovedì 6 ottobre 2011

"Siate affamati, siate folli" - Steve Jobs: L'UOMO CHE HA CAMBIATO LE NOSTRE VITE

Steve Jobs, come e perché
ha cambiato le nostre vite
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9131&ID_sezione=29
La sua filosofia: "Siate affamati, siate folli"
VITTORIO SABADIN
Bisogna rileggere il discorso che fece nel giugno 2005 all’Università di Stanford per capire perché Steve Jobs sia uno degli uomini più importanti di questo secolo.

Non è solo per quello che ha inventato, gli apparecchi come l’iPhone, l’iPod e l’iPad che hanno cambiato il nostro modo di comunicare, di informarci, di ascoltare musica, di vedere un film. È anche per quel tipo di approccio alla vita che le grandi menti fanno proprio e che lui stesso spiegò molto bene, nel giorno della loro laurea, agli studenti di Palo Alto. «Siate affamati, siate folli disse ai ragazzi -. Credete sempre in qualcosa e alla fine guardandovi indietro scoprirete che la vita è fatta di puntini che si sono uniti. Dovete sempre avere fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire».

L’uomo che ha cambiato le nostre vite spiegò proprio in quel discorso come il percorso dei suoi puntini sembrasse figlio del caos e sicuramente destinato alla rovina, se la fiducia non avesse rimesso le cose a posto. Steve Jobs è nato il 24 febbraio del 1955 a San Francisco, figlio di una studentessa di college non sposata. Di lei non sappiamo nulla, ma aveva sicuramente carattere. Non solo decise di far nascere il bambino, ma chiese di lasciarlo in adozione solo ad una coppia di laureati, gente che capisse l’importanza dell’istruzione e lo mandasse all’università.

La prima coppia in lista d’attesa, un avvocato e la moglie, rifiutò il bambino perché volevano una femmina. La seconda fu chiamata nel mezzo della notte e il signor e la signora Jobs si portarono a casa il piccolo. Quando la madre naturale scoprì che nessuno dei due era laureato rifiutò di firmare le ultime carte e venne convinta solo quando i genitori adottivi si impegnarono formalmente a mandare il ragazzo al college. «Diciassette anni dopo raccontò Jobs - andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno altrettanto costoso di Stanford e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l’ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a vederci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college avrebbe potuto aiutarmi a capirlo».

Quando decise di abbandonare gli studi, Jobs non immaginava quale disegno i suoi puntini stavano elaborando. Dormiva per terra nelle camere degli amici e l’unico vero pasto della settimana era quello che gli veniva offerto la domenica sera nel tempio degli Hare Krishna, che raggiungeva camminando per dieci chilometri. Fu la calligrafia a riportare le linee della sua vita sulla strada giusta. Jobs ne era affascinato, perché i caratteri tipografici erano artistici e belli, avevano una storia. Seguì un corso nel quale imparò a distinguere i «serif» dai «san serif», ad apprezzare l’armonia degli spazi tra le lettere, le parole e le righe, «tutto quello che rende grande una stampa tipografica del testo». Guardandosi avanti, non capiva a che cosa questa conoscenza gli sarebbe servita. Guardandosi indietro in quel giorno a Stanford, vide i puntini disegnare una meravigliosa serie di coincidenze trasformate in opportunità: «Dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E’ stato il primo computer dotato di una meravigliosa capacità tipografica. Se non avessi lasciato il college, il Mac non avrebbe mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o font spaziati in maniera proporzionale. E forse oggi non ci sarebbe nessun computer con quelle possibilità».

Guardare sempre avanti, non arrendersi mai, avere pazienza e fidarsi del proprio intuito sono sempre state le caratteristiche di Jobs, quelle che lo hanno fatto grande. La serie di computer Apple II della fine degli Anni 70 è ormai nei musei di tecnologia, così come il Macintosh, il primo apparecchio con il mouse. E sono già nei libri di storia della Silicon Valley i contrasti con i co-fondatori di Apple, che lo estromettono dalla compagnia nel 1984 lasciandolo, a 30 anni, di nuovo senza un lavoro, ma subito pronto a ricominciare fondando NeXT, l’azienda che verrà fusa con Apple dodici anni dopo, rimettendo a posto i puntini e collocando Jobs nel ruolo di amministratore delegato che ha ricoperto fino a ieri.

I suoi detrattori dicono che a ben guardare non ha scoperto molto di nuovo, ma ha utilizzato tecnologie esistenti per metterle sul mercato con un design innovativo ed elegante. In parte è vero. Ma il successo di Apple è soltanto suo: in nessuna azienda il potere è stato così accentrato su di un solo uomo, l’unico che si è dimostrato capace di sapere di che cosa ha bisogno la gente prima che la gente anche solo immagini di averne bisogno. Ora che i suoi puntini hanno cambiato di nuovo direzione, c’è una nuova sfida all’orizzonte, la più difficile.

Steve Jobs, un folle geniale

Figlio illegittimo, non conobbe mai il padre naturale. E' stato molto amato e molto odiato

GIOVANNA FAVRO
Che storia, e che vita incredibile, quella di Steve Jobs. Se invece di essere semplicemente un informatico di immenso successo è diventato un mito, un'icona, un guru, è per quella vita incredibile e ribelle, per i suoi inizi folli e geniali, per una biografia che ha del pazzesco anche nei dettagli più intimi.

Non era ancora nato, e già era fuori dagli schemi: nel 1955, a San Francisco – una città non esattamente qualsiasi - venne al mondo dalla relazione fra uno studente di origine siriane (Abdulfattah Jandali, divenuto poi gestore di casinò a Reno, in Nevada) e la compagna di studi Joanne Schieble. I due non erano sposati, e quel bambino non lo volevano. La mamma lo partorì senza manco informare il papà. E così Steve fu adottato da una modesta coppia di impiegati californiani, Paul e Clara Jobs. Negli anni ha rivisto la madre naturale, ma non ha mai voluto stringere la mano al padre. Incontrò invece la sorella, nata due anni e mezzo dopo di lui da quella coppia di studenti. Si chiama Mona, è una scrittrice, e scoprì di avere un fratello grazie a un investigatore privato.

Un fratello davvero bislacco, appariva Steve a chi lo incontrava da ragazzo. Mollò gli studi pagati dai genitori adottivi al college di Portland, in Oregon, dopo pochissimi mesi di frequenza. Se ne partì per un viaggio in India, tornò, e si mise a frequentare soltanto le lezioni che gli interessavano. Ovvero, pensate un po’, i corsi di calligrafia. Chissà cosa ne avrebbe pensato, di quel ragazzino, il genitore italiano medio.

Eppure, in un garage della California, Steve Jobs crea i computer. Li inventa. Da zero. E bisogna guardare in faccia la media dei nostri ragazzi di vent'anni quando si legge che fondò la Apple Computer nel 1976, a soli 21 anni. Con un amico, grazie a un prestito di un negozio di elettronica.
A 25 anni, quel piccolo arrogantello, già vale 100 milioni di dollari. Dato per morto più di una volta - in un caso ci fu anche un annuncio ufficiale - ha una biografia costellata di curiosità, e forse di leggende. Dicono che abbia avuto una figlia naturale e che non l’abbia mai riconosciuta. Dicono che in azienda fosse amato e odiato in pari misura: certe volte era cattivissimo, anzi crudele, un tiranno capace di licenziare per un niente. Ma sapeva anche esaltare al massimo chi gli piaceva e gli pareva sufficientemente forte e creativo.

E’ storia, invece, che la Apple, la sua creazione, l’abbia cacciato a pedate. I manager non lo sopportavano. Ma lo implorarono di tornare, e gli rimisero in testa la corona di numero uno, quando si trovarono con la Apple ridotta a un guscio vuoto. Di quel pazzo arrogante c’era un bisogno assoluto.

I maniaci dell’informatica lo trasformarono in un’icona. Era fuori dagli standard in ogni dettaglio, dalla scelta di presentare personalmente i suoi prodotti da palchi teatrali, al look ultra minimal, con i suoi jeans e i suoi girocollo neri alla Jean Paul Sartre. «Il vostro tempo è limitato - disse l'inventore dell'iPod, l' iPhone e l' iPad agli studenti di Stanford nel 2005 -. Non buttatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciatevi intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere con i risultati dei pensieri degli altri. E non lasciate che il rumore delle opinioni degli altri affoghi la vostra voce interiore. Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno già cosa voi volete davvero diventare. Tutto il resto è secondario».