lunedì 20 dicembre 2010

L'Ardore di Roberto Calasso


L'Ardore
Il racconto della sapienza vedica.
Sulla copertina del nuovo libro di Roberto Calasso, L’ardore, si vede la scultura in pietra nera di una fanciulla in meditazione. È acefala, come certi sapienti vedici la cui testa, si tramanda, esplodeva in mille pezzi davanti a enigmi sacrificali irresolubili.
Il lettore occidentale certo non arriva a tanto, ma una leggera emicrania o una vertigine può coglierlo quando legge nello Satapatha Brahmana, trattato rituale che risale all’ottavo secolo prima di Cristo, di come gli Dei all’inizio dei tempi strapparono la pelle agli uomini per rivestirne le vacche: «Se si vuole risalire alle origini, questo è dunque lo stato naturale dell’uomo: lo Scorticato, come negli atlanti cinquecenteschi di anatomia».
Le due immagini – la tavola anatomica rinascimentale e la fanciulla senza testa – sembrano agglutinarsi a comporne una terza, certo cara a Calasso: l’uomo vitruviano decapitato di André Masson che figurava sul frontespizio della rivista Acéphale, dove sul finire degli anni Trenta Georges Bataille, Pierre Klossowski e Roger Caillois ragionarono di molte cose, ma soprattutto di Nietzsche e del sacrificio. Nietzsche e il sacrificio, appunto: il fuso e la rocca da cui Calasso va svolgendo il filo della sua opera fin dagli esordi di Monologo fatale.

Se l’uomo, come si legge nel Prologo di Zarathustra, è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, per l’India dei Veda sembra essere piuttosto un nonnulla stritolato tra gli Dei e gli animali: una creatura spaurita e vulnerabile, braccata dai predatori, a cui per prima cosa vien tolta la pelle di dosso. L’ardore torna, ossessivamente, al punto originario da cui s’irradia tutta la nostra vicenda storica: il momento in cui l’uomo, da preda, divenne predatore per via d’imitazione, munendosi di selci scheggiate e di frecce che potessero riprodurre le zanne e gli artigli dei suoi uccisori. Su questo rivolgimento inaugurale, avvertito come una colpa immane, si fonda il rituale del sacrificio, che ne è riparazione e ripetizione a un tempo.
Nessuna civiltà seppe mettere al centro questo nodo tragico e oscuro come l’India dei Veda, che si disinteressò delle conquiste militari e materiali ma lasciò una gran mole di trattati, inni, formule che sembrano tutte ruotare intorno al perno dello yupa, palo del sacrificio e asse del mondo. L’ardore – che è forse, insieme a K., il punto più alto dell’«opera in corso» di Calasso – offre un commentario erratico e vorticante, da filologo surrealista, a questi testi oscuri, chiudendo il ciclo aperto nel 1983 con La rovina di Kasch, di cui riprende tutti gli assilli: il sacrificio come riassestamento impossibile dell’equilibrio del mondo, la compresenza di divoratore e divorato nella fisiologia stessa della mente, la trasposizione moderna di tutte le potenze del sacro nella società secolare, «forma suprema della superstizione».
Ma siamo seri, e fermiamoci cautamente in limine: L’ardore merita di meglio che una recensione. Se mettessimo insieme qualche frase suggestiva, qualche stralcio dal libro e la finissimo lì, daremmo l’impressione che questa sia una delle tante novità editoriali che incontrano il destino a cui alludeva Jonathan Swift: «Dei settemila scritti attualmente prodotti in questa rinomata città, prima che il sole abbia compiuto la prossima rivoluzione, non resterà l’eco di alcuno». Ma non è questo il caso, tanto più che la «rinomata città» della Repubblica delle Lettere somiglia oggi più che mai al meeting annuale degli scemi del villaggio in Amore e guerra di Woody Allen: il lettore deve destreggiarsi in una fiera affollata da megalomani logorroici e attaccabottoni, ciascuno persuaso di essere Shakespeare, ciascuno convinto che la sua storia meriti ore di tempo prezioso. In questa congrega di lunatici il critico, più che il sacerdote intermediario tra la schiera dei Santi (gli autori) e il popolo dei devoti, è l’amico scaltro che cerca di preservarti da incontri spiacevoli e guidarti dove vale la pena sostare. Ebbene, in amicizia, L’ardore merita tutto il tempo che vuole estorcerci.
Si obietterà che un libro del dominus della Adelphi non corre certo il rischio di passare inosservato. Il suo probabile destino è però quello di risuonare a vuoto, semplicemente perché le famiglie culturali accampate da sempre nel nostro paese hanno tutti i requisiti per non capire granché di Calasso. I cattolici gli danno dello gnostico e del distruttore shivaita – su Avvenire lo si accusò perfino di essere l’ispiratore del rituale neopagano del lancio dei sassi dal cavalcavia (i bulli, com’è noto, leggono libri sullo Satapatha Brahmana).
La destra guarda con sospetto il suo estetismo, quasi fosse una mollezza sibaritica, e anni fa lo accusò di corrompere la gioventù in combutta con il suo maestro Elémire Zolla. Certi marxisti che un tempo gli apponevano lo stigma dell’irrazionalismo, oggi lo tacciano di snobismo – il sottinteso ricattatorio di entrambe le accuse essendo che, mentre alla corte zarista di Adelphi ci si delizia con gli impalpabili versi di Gottfried Benn, fuori si accalcano ferrovieri e metalmeccanici sporchi di grasso a cui dà voce e coscienza lo scrittore realista.
L’accusa di snobismo, va da sé, è l’arma dei risentiti, gli stessi che setacciano i libri di Calasso in cerca di errori che scalfiscano la sua fama di grande erudito: quando uscì La letteratura e gli dèi, per dirne una, molto si parlò di una data imprecisa e di un avverbio latino maltradotto. Ma il nitpicking, il far le pulci, dietro le apparenze ostili è pratica servile: è l’operazione che la femmina del babbuino amadriade compie sul vello del maschio dominante.
Potremmo prestarci anche noi a questo gioco zelante e ingeneroso, e rilevare che a pagina 436 de L’ardore, a proposito dello sterminio degli Ebrei e del sacrificio umano, è scritto che nel dopoguerra il linguaggio esitò davanti a quell’evento oscuro, al punto che nel 1948 lo storico Raul Hilberg non trovò di meglio che intitolare la sua opera la Distruzione degli ebrei d’Europa, e che solo qualche anno dopo si arrivò alla designazione sacrificale di Olocausto. Ma il libro di Hilberg non è del 1948, è del 1961; e il termine Olocausto cominciò a circolare, seppure in sordina, addirittura alla fine degli anni Trenta.
E tuttavia siamo qui per fare l’elogio di Calasso, non per seppellirlo. Ed è su un’altra nota che vorremmo concludere, tutta a beneficio del lettore a spasso nella Repubblica delle Lettere – quel lettore che, magari, non s’interessa granché di Veda, veggenti indiani, cosmogonie e piante inebrianti. Ebbene, in coda a L’ardore Calasso racconta che l’idea del libro nacque «dallo sconsiderato proposito di scrivere un commento allo Satapatha Brahmana», il trattato rituale che nell’unica traduzione tuttora esistente si compone di 2366 pagine, suddivise in cinque volumi. Il commento avrebbe gettato qualche lume sul pensiero vedico, che Calasso definisce «il tentativo più azzardato e consequenziale di ordinare la vita obbedendo esclusivamente alla modalità analogica», e cioè a quel polo della mente che coglie ovunque somiglianze, affinità, corrispondenze, nessi profondi.
Invitiamo il lettore a leggere questa confessione come una involontaria autoallegoria, e a vedere ne L’ardore il commento a un’opera che occupa ben più di 2366 pagine: il catalogo Adelphi, soliloquio – o monologo fatale – fatto di libri e di autori, tentativo «azzardato e consequenziale» di ordinare la cultura secondo il polo analogico della mente, in base a somiglianze di famiglia spesso sfuggenti o impercepite. D’altro canto, scrisse una volta Calasso, l’arte dell’editoria è una forma di bricolage che consiste nel «dare forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro».
È per l’appunto il caso di Adelphi. L’«opera in corso» di Calasso risiede, per così dire, al centro del Mandala, e ne offre la chiave. Intorno, disposti a corolla, i suoi autori prediletti – Nietzsche e Stirner, Kraus e Kafka, Walser e Wedekind – e quelli per cui egli stesso ha scritto i risvolti di copertina, raccolti in piccola parte nelle Cento lettere a uno sconosciuto: da qui si spalanca una foresta risonante di echi, dove René Girard e Julian Jaynes, Artaud e Daumal, perfino Wittgenstein e Kant (forse di contraggenio) sono come magnetizzati e fatti convergere verso un unico punto calamitante. Quale sia questo punto, lo rivela L’ardore: è lo yupa, il palo del sacrificio.
Articolo uscito sul Riformista il 10 novembre 2010

di Antonio Gnoli, la Repubblica, 13/10/2010
Intervista con lo scrittore che ha appena pubblicato "L'ardore", libro dedicato a questa civiltà scomparsa.
Un fenomeno unico nella storia. Non restano edifici né altri reperti, solo testi tramandati oralmente. L'esperienza di quegli uomini si basava tutta sulla mente e sulla coscienza.


La storia può cominciare così. Più di tremila anni fa, nel Nord dell'India, ci fu una civiltà molto evoluta che non lasciò tracce, se non attraverso una imponente quantità di testi, trasmessi oralmente. Era un mondo chiuso, incline all'isolamento e autosufficiente. Governato da veggenti e difeso da guerrieri. I veggenti e i guerrieri rappresentavano l'ordine nelle due forme che avremmo, in seguito, ritrovato nella storia dell'umanità: auctoritas e potestas. Quello di cui parliamo era il regno vedico. Somigliava a un mondo onirico, abitato da presenze impalpabili e sorretto da un sapere che tutto implicava. Il "sapere" era il Veda. Nessuna religione che conosciamo è lontanamente paragonabile al Veda, i cui tratti andavano oltre il culto e il mito, per avvolgere ogni cosa, ogni gesto, ogni apparenza. Tutto in quel regno risuonava della sua presenza e gli uomini ne facevano parte, come ogni cosa. Un "sapere" universale irrorava ogni aspetto della vita. Ma non era una civiltà materiale, bensì una civiltà della mente. E gli uomini che l'abitarono fecero l'esperienza di che cosa fosse la pratica di un pensiero estremo, di un mondo fondato più sulla mente che sul visibile. Poi tutto sparì, inghiottito da quell'ignoto che gli uomini vedici tenevano in gran conto. Ma quella storia ogni tanto rispunta nelle vicende successive, nei mondi e nelle civiltà che verranno dopo, fino a lambire il nostro e talvolta a entrarci dentro come un ammonimento.

È questo mondo remoto che il nuovo libro di Roberto Calasso - L'ardore (Adelphi, pagg. 529, euro 35) - rievoca e racconta con suggestiva e vertiginosa precisione. Come leggerlo? I punti di riferimento più diretti sono Ka, apparso nel 1996, ma soprattutto La rovina di Kasch del 1983, dove l'India vedica e il moderno - l'"innominabile attuale" come lo definisce Calasso - sono legati da continui rimandi e connessioni segrete. L'ardore si compone di ventuno capitoli e di una conclusione. Oltre all'India, troviamo la Grecia di Socrate, la Bibbia e in particolare la storia dopo il diluvio, la Nuova Zelanda in un'analisi di Tiki, una divinità Maori che, come spiegò Marcel Mauss, mostrava sorprendenti corrispondenze con l'India vedica. Il libro si conclude con un confronto molto esplicito tra il mondo attuale e quello vedico. È come se Calasso abbia avvertito il bisogno di un'analisi frontale che ci coinvolge tutti, in prima persona. Non è casuale che egli definisca la lettura di quei remoti testi sacri «un contravveleno potente all'esistenza attuale».

Che cosa quel mondo è in grado di insegnarci?
«La civiltà vedica non resse all'urto del tempo. Si disgregò, scomparve. Eppure quel che resta ha una forza tale da scuotere ogni mente che non sia del tutto asservita a ciò che la circonda».

Lei scrive che ben poco di tangibile rimane dell'epoca vedica.
«Tranne i testi, non ci resta quasi nulla di quel mondo. Non sussistono edifici, né rovine, né simulacri. È una civiltà dell'invisibile, aniconica, ma non perché ci fosse una proibizione sull'immagine, come accadde nella storia occidentale. Lì, tutto parlava attraverso le immagini. Solo che quelle immagini abitavano e dominavano la mente. Se si legge il Rigveda, si vede che è un'immensa catena di immagini».

Una civiltà che non conserva nulla, che elimina ciò che usa e non lascia tracce materiali. Perché?
«Non è stata la deperibilità delle cose, legate all'usura del tempo, a inghiottire quel mondo. Altre civiltà altrettanto antiche, come quelle dell'Egitto e della Mesopotamia, hanno conservato una enorme mole di reperti utili per capirle. Da questo punto di vista, il regno vedico è un cuneo conficcato in mezzo ad altre grandi teocrazie. Non si appaga dell'espansione, della potenza, della conquista. Che sono poi gli aspetti per noi più familiari. Il perno su cui ruota quel mondo è la mente, ciò che loro chiamano manas e che in primo luogo implica il puro fatto di essere coscienti».

Ma è una coscienza che poggia su qualcos'altro, sul "soma", una pianta inebriante.
«Una pianta probabilmente allucinogena, di cui si sa pochissimo, che determina uno stato della coscienza, attorno al quale ruotavano innumerevoli atti rituali. Il passaggio del soma dal cielo alla terra è l'episodio che si pone all'origine della foltissima mitologia vedica. La liturgia mirava a raggiungere l'ebbrezza - e si riteneva che soltanto l'ebbrezza avesse il potere di attirare gli dèi sulla terra».

Qualcosa di analogo conobbero i greci con la possessione.
«Con una differenza fondamentale: Dioniso rappresenta un elemento sconvolgente all'interno di un assetto già dato. Nell'India vedica l'ebbrezza è l'assetto stesso. Non c'è qualcosa che irrompe. Il soma è il fondamento. Gli uomini vedici volevano pensare e volevano vivere soltanto in certi stati della coscienza. E questo illumina anche la loro ossessione verso la liturgia».

Perché al potere, nelle sue forme tradizionali, gli uomini vedici preferirono l'ebbrezza?
«Anteponevano la conoscenza alla potenza. E la conoscenza andava insieme con una certa specie di ebbrezza. Non costruirono città, non immaginarono la società come centro del cosmo, non crearono un¿amministrazione capillare. Ignorarono ogni preoccupazione di lasciare cronache e annali. Ai loro occhi edificare templi o palazzi rappresentava più un ostacolo che un raggiungimento».

L'immagine che lei offre di questa civiltà è molto diversa da quella farneticante che alcuni studiosi ne hanno dato. Come replica?
«Se uno si avvicina ai testi vedici ha due vie: o prende quello che legge come un delirio, una delle tante aberrazioni dell'umanità; o è obbligato a riconoscere che quei testi dicono cose fondamentali su temi che saranno sempre inevitabili».

Quali sarebbero queste cose fondamentali?
«Già quelle di cui siamo testimoni lei e io in questo momento: essere vivi e coscienti. Ad esempio, quell'atto fondamentale che è respirare significa che non siamo esseri autosufficienti, ma che dipendiamo ogni secondo dall'aria che prendiamo dall'esterno e che emettiamo. Lo Yoga, fra l'altro, è fondato su questo principio».

Sono aspetti che la cultura occidentale ha spesso riproposto in modo superficiale.
«È una delle tante penose contraffazioni che ci circondano. Viviamo in un mondo di contraffazioni. Il gran parlare che oggi si fa di spiritualità, in particolare se riferito all'India, produce spesso effetti comici. "Spiritualità" è una parola che non ha nessun equivalente in sanscrito. Il vero contributo dell'Occidente al mondo indiano è stata la filologia: il lavoro dei grandi indologi che, a partire dall'Ottocento, hanno svolto un'opera immane e solitaria di scavo su quei testi».

A proposito di parole, lei ha scelto come titolo del suo libro: L'ardore. Che cosa è che arde?
«Ardore è la traduzione di tapas, parola che a lungo è stata tradotta in modi svianti ("austerities", "ascesi", "mortificazione"). In realtà il tapas è affine al tepor, è qualcosa che brucia. In definitiva è l'approssimazione maggiore al sentimento di essere vivi. Per sapere occorre ardere, praticare l'"ardore". Il tapas è per gli uomini vedici l'origine stessa non solo del pensiero ma del mondo. Se non c'è questa strana entità che arde, e che è innanzitutto la mente, non c'è il pensiero - e non c'è vita».

Un pensiero intriso di paradossi e di enigmi. Che relazione c'è con il mondo greco?
«C'è una convergenza, ma il modo di manifestarsi è ben distinto. Nel mondo greco l'enigma è una scoperta dei sapienti. Mentre in quello vedico l'enigma sta a fondamento del rituale. Senza l'enigma non si capirebbe il senso del sacrificio vedico, che era anche un torneo speculativo, dove si rischiava la vita. Il brahmodya, ossia la disputa per enigmi sul brahman, lasciava sempre aperta la possibilità che a uno dei disputanti scoppiasse la testa. E poteva avvenire per due motivi: o perché il disputante non aveva saputo rispondere all'enigma o perché aveva posto un quesito di troppo».

Nel libro si parla di un pensiero estremo. Ma come si porrebbe questo pensiero rispetto a oggi?
«Nell'ultima parte del libro racconto qualcosa della improbabile collisione fra il pensiero vedico e quello corrente oggi. Non credo che il risultato andrebbe a nostro favore. Anche se oggi gli scienziati parlano continuamente di "coscienza" (termine che trascuravano sino a qualche decennio fa), se dovessi suggerire che cosa leggere sul tema penserei alle Upanishad e non a qualche trattato di neuroscienza. Capire qualcosa di quegli antichi testi sarebbe una scossa salutare. Toglierebbe l'illusione che le opinioni oggi dominanti rappresentino uno stadio particolarmente evoluto del pensiero. Quanto ai testi vedici, la loro forza è constatabile anche per il fatto che, pur in mancanza di un corrispettivo politico, hanno innervato la vita dell'India fino a oggi».

L'"oggi" ai suoi occhi è segnato come lei dice da "l'innominabile attuale", vuole esplicitare questa espressione?
«Da circa trent'anni mi propongo di esplicitarla in un libro. Ma non ci sono ancora arrivato. Ci sono epoche che sfuggono tenacemente alla parola. Stendhal o Balzac sapevano parlare con mirabile efficacia e precisione del mondo che li circondava. Oggi non mi sembra che qualcuno riesca a fare qualcosa di simile». Scheda del libro: L'ardore, di Roberto Calasso

"Con [..] l'ultimo lavoro di Calasso si ha una geniale immersione nell'antichissima mentalità dei Veda - ci si sorprenderà di leggervi la mappatura profonda e rimossa dell'identità umana. [..] Dal capitolo della 'Veglia perfetta' a quello dell''Erotica vedica' fino alla Conclusione, l'Autore fa emergere quanto rende la nostra mente integrata rispetto all'attuale enfasi sui linguaggi nano-logici volti ad esaltare la precisione elementarista della vita mentale ormai avviata sulla dissociazione schizoidea tra cervello destro (corrispondenze analogiche) e sinistro (formalismi sostitutivi). Tratto quest'ultimo tipico della mentalità euroccidentale, almeno a cominciare da Cartesio poichè l'eredità integralmente occidentale, ossia eurasiatica, trova in Tommaso d'Aquino (XIII sec.) l'esempio di quel linguaggio analogico ritenuto dal'A. il respiro della mente vedica".


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