domenica 13 maggio 2012

Borsellino e l'etica del combattente.


Paolo Borsellino, il pm malinconico
nella trincea dell'antimafia

Paolo Borsellino (in foto con Giovanni Falcone) anche in vacanza studiava carte e scriveva istruttorie

Pessimista, combatteva spinto
dalla forza della sua etica. 
Il suo capolavoro: i diciannove ergastoli nell'aula bunker

GIANNI RIOTTA
[...] È al Meli che prende la maturità classica nel 1958 Paolo Borsellino, 8 in italiano, greco, filosofia e fisica, 7 in latino, storia, matematica, chimica. [...] Così Borsellino, Dioscuro con Giovanni Falcone del pool antimafia di Palermo, si iscrive a Giurisprudenza [...]. Matricola 2301, simpatie per il Fuan «Fanalino», goliardi del Msi. Basta perché Falcone entri a volte nel suo ufficio, schioccando i tacchi: «Camerata Borsellino!».

Scherzano, il pool guarda al diritto non alla politica, quando si aggrega il magistrato Giuseppe Di Lello, vicino al Manifesto, è accolto con stima e amicizia. Di Lello è lo stratega, ha visione, Borsellino il tattico, sempre concreto. Racconterà di un caminetto «scomparso» da una villa che il pentito Buscetta cita accusando la famiglia Salvo. L’ispezione non lo trova e Borsellino fa a Falcone il gesto del suicidio «Spariamoci», senza prove niente processo. Un contadino li salva rivelando che, d’estate, il caminetto viene smantellato. Il destino del ragazzo del Msi si compirà simbolicamente nel 1992, con Gianfranco Fini che lo candida Presidente della Repubblica: riceve 47 voti.

Nei miei appunti di cronista a Palermo, dopo l’assassinio di Falcone, Paolo Borsellino è ricordato da un gesto: «Borsellino apre le mani grandi sulla bara di Falcone, allungata sotto i marmi del Palazzo di Giustizia. L’atrio è zeppo di gente, irata, dolente. Il gesto di Borsellino sembra svuotarla, sono di nuovo lui e l’amico Giovanni e basta, come all’oratorio di San Francesco della Kalsa, l’araba al Khalisa, la pura». Chi sta vicino si tira da parte, è il giuramento di un commilitone. Quando Borsellino cade con la scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, il 19 luglio, il taccuino ritorna sull’ex studente, diplomato al Meli, 18 anni dopo mio padre, 13 anni prima di me: «Capisco adesso che le mani di Borsellino piantate sulla bara di Falcone, come ad imprimere le impronte, quasi il coperchio di mogano fosse cemento fresco e palme e polpastrelli potessero restare stampati fino al giorno del giudizio, erano un appuntamento… la battaglia era perduta perché…nelle vere guerre, non c’è scampo: si vince o si muore. A lui tocca morire. Reso omaggio all’amico, si appoggia al muro di granito lucido, accenna a cercare una sigaretta, scuote la testa come se gli fosse venuta in mente una cosa che non si fa e dice due parole ai cronisti, più parlando a se stesso che altro: “È finita, non c’è nulla da fare, niente mezzi, niente indagini, no non credo... no, non credo... restare? Che cosa dovrei fare? C’è qualcosa d’altro che potrei fare?”». Falcone&Borsellino erano fratelli di epopea palermitana, Rinaldo e Astolfo, le anime opposte di una città, luce e vespro. Giovanni era sfrontato, audace, allegro, a tratti duro. Paolo malinconico, ironico, crepuscolare. Parlare con Falcone vi rendeva certi della vittoria nella battaglia antimafia. La stessa discussione con Borsellino lasciava sgomenti: la sconfitta era incombente per la sproporzione delle forze, solo l’etica imponeva di battersi. Altro che «professionisti dell’Antimafia», 60 milioni l’anno, 30.000 euro di oggi. Lo scrittore Leonardo Sciascia, indotto all’inopportuna polemica, mi disse «Fui mal consigliato». Al magistrato restò l’amarezza «Si voleva eliminare il lavoro di Falcone».

Diego Borsellino, papà di Paolo, era farmacista in via della Vetreria, educazione all’antica. Falcone era il «Barone Rosso», eroe popolare. Con le fatiche a Enna, Mazara, Monreale, Palermo, Trapani e Marsala, Borsellino è il fante da trincea: «Ho fatto le vacanze all’Asinara, nel 1985, per stendere con Giovanni le ultime pagine dell’istruttoria per il maxiprocesso». Distilla la malinconia in humor alla Buster Keaton: «Giovanni, devi darmi la combinazione della cassaforte, così quando ti ammazzano la apro, altrimenti come faccio?». Gli inviati dei giornali del Nord restano confusi dai macabri scherzi dei palermitani, pronosticarsi a vicenda i necrologi sul «Giornale di Sicilia». [...]

[...] Il capolavoro è il maxiprocesso, 19 ergastoli, 2665 anni di carcere. Poi Borsellino vede avvizzire le speranze di Falcone di guidare il pool, e conclude presago «Restammo soli. Andando sul luogo dove era caduto il commissario Montana, il vicequestore Cassarà mi aveva detto “Siamo cadaveri che camminano”». Cassarà ucciso nel 1985, Falcone e Borsellino nel 1992.

Otto settimane prima della strage di via D’Amelio Borsellino conferma a Canal+: «All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa… addirittura monopolistica, nel traffico di sostanze stupefacenti... Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco…perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò… ad effettuare investimenti…una via parallela…all’industria operante anche nel Nord».

Via D’Amelio apre un capitolo mai chiuso, trattativa Stato-Mafia, l’«agenda rossa» scomparsa del giudice, la Prima e la Seconda Repubblica. Paolo Borsellino vive gli ultimi giorni con stoica rassegnazione, conscio dei veleni e delle viltà che lo circondano, non solo tra i mafiosi. [...] Un politico siciliano ha proposto di cancellare il nome di «Falcone e Borsellino» dall’aeroporto di Palermo temendo allontani i turisti: sbaglia, il mondo ama i nostri eroi Paolo e Giovanni.




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