Una
nazione che si sta distruggendo con la propria forchetta. È questo quello che mi
viene in mente guardandomi attorno. Magliette messe a dura prova da pance
esorbitanti, rotoli di grasso che scappano dalla cintura (come i bordi di un
muffin, dice un mio amico), donne prigioniere delle proprie cosce che non
riescono quasi a camminare. Ma come sono arrivati a questo punto? Non dico nulla
di originale se scrivo che gli americani hanno un pessimo rapporto con la
bilancia. Anzi, per essere giornalisticamente precisi, il 68% di questa nazione
è sovrappeso o obeso. La percentuale di adolescenti obesi è aumentata dal 5% del
1980 al 18% del 2008. L’altro giorno ho visto il documentario “The Weight Of The
Nation”, il peso della nazione, sull’emittente HBO e ho scoperto che i bambini
americani per la prima volta hanno un’alta probabilità di morire più giovani
rispetto alla generazione dei propri genitori. E ciò, appunto, per questioni
alimentari.
Ma dal momento che mi trovo sul campo per fare giornalismo
consumando i copertoni dell’auto, se non proprio le suole delle scarpe come una
volta, non me la sento di elencare sterili dati. E allora parliamo del problema
partendo da un oggetto comune come un apriscatole. Ieri io e Stephanie, la
collega francese che mi seguirà in quest’avventura fino a New Orleans, ci siamo
concesse il primo pranzo decente da inizio viaggio. Gli altri giorni infatti, un
po’ perché stiamo viaggiando con un budget ridotto e un po’ perché ci
disgustavano i fast food da cui eravamo circondate, ci accontentavamo di farci
delle insalate home-made comprando gli ingredienti al supermercato. Triste, lo
so. Ma ci si adatta.
L’altra sera Stephanie ha comprato una scatola di tonno
senza apertura facilitata. “Ma sei sicura che poi troviamo l’apriscatole?”
chiedo. “Ma certo, ci sarà qualcuno che ce lo presta” risponde fiduciosa lei. E
parte alla caccia al prezioso strumento. Torna dopo mezz’ora a mani vuote.
Nessuno, tra motel, fast food vicini e perfino il benzinaio, aveva un
apriscatole. E così, se fino a una generazione fa quest’oggetto era
stigmatizzato come quintessenza di cattiva alimentazione e segno di pigrizia
gastronomica, ecco che nell’evoluzione della specie americana l’apriscatole
diventa quasi un oggetto di arte culinaria. Se ti avventuri a usarlo, vuol dire
che hai intenzione di cucinare. Per l’americano medio è meglio andare in un fast
food dove tutto è già pronto e costa poco. Se passi in un McDrive non devi
nemmeno fare la fatica di scendere dall’auto. Ti allungano direttamente al
finestrino un Sausage Burrito o un Sausage McMuffin da un dollaro
l’uno.
E che gusto ha questo cibo ‘veloce’? Tutto è troppo salato, troppo
dolce, troppo fritto. E il palato s’impigrisce, diventa insensibile ai sapori.
Si inizia male fin dalla colazione dove ti vengono serviti cereali dai colori
fosforescenti e cupcake dalle tinte forti, proprio come l’amanita muscaria, il
fungo velenoso rosso a pallini bianchi. Perfino il cibo che ti sembra sano non
lo è. L’altro giorno ho dimenticato delle fragole dentro la 500 gialla che è
rimasta tutto il giorno al sole. Ho pensato: a questo punto ci farò la
marmellata. E invece no. Erano tutte lì, rosse e carnose come non mai. Solo una,
la più debole del gruppo, aveva un po’ di muffa. Mai vista in natura una cosa
simile.
E le porzioni. Gigantesche. Allora ho provato a chiedere agli
americani che cosa ne pensano. Da lunedì sto twittando su un account americano
che fa parte di un movimento chiamato Rotation Curation. Sono stata invitata a
essere il ‘curatore’ del loro account TweetWeekUSA per una settimana. Così il
primo giorno ne ho approfittato per gettare un sasso in questo stagno virtuale
che ancora non conoscevo. “Una delle prime cose che mi hanno colpito da quando
mi sono trasferita in US sono le porzioni. Troppo grandi” ho twittato. Si è
subito scatenata una tempesta di cinguettii. Alcuni inneggiavano al piatto
pantagruelico, ma i più riconoscevano che effettivamente si era superata la
misura via via negli anni.
Per fortuna esiste anche una contro-tendenza.
Senza arrivare agli eccessi della California, dove integralisti del ‘mangiar
sano’ si nutrono solo di cibo biologico e local e mai mangerebbero un pomodorino
dalla provenienza dubbia, già in New York si possono trovare diversi
supermercati con cibi bio (che poi, anche lì, bisognerebbe davvero indagare
quanto biologici siano) e orti su rooftop con vista Manhattan. Ma, a sorpresa,
anche in una città dall’animo profondamente industrializzato come Detroit si sta
sviluppando un movimento che crede fortemente nel ritorno a un mangiar sano,
naturale e in porzioni decenti. Ne è prova l’Eastern Market che ogni sabato su
Russell Street richiama oltre 40mila persone da tutto il Michigan, ricchi e
poveri, bianchi e neri. “Dopo lo sport, questo è l’unica occasione in cui
veramente tutti gli abitanti di Detroit si ritrovano a Downtown” mi ha detto
un’amica che vive in Motor City.
E per chi abita nel cuore di Detroit
questa è anche l’unica occasione per trovare cibo fresco. Sotto le volte del
mercato di pietra costruito nel 1891 ogni settimana si ritrovano 250 produttori
indipendenti. Possono rappresentare piccole aziende agricole, fattorie degli
Amish, coloro che alla modernità non hanno mai ceduto, ma si trovano anche
famiglie come la ‘Bike Family’, come l’ho battezzata, ossia una coppia con
bambino piccolo che coltiva ortaggi nel giardino di casa e li rivende
spostandosi in bicicletta da un posto all’altro. In questo mercato si trova di
tutto, dai formaggi alle fragole che marciscono come un tempo. E finalmente hai
la sensazione che potresti anche fare a meno dell’apriscatole.
|
Nessun commento:
Posta un commento