lunedì 21 maggio 2012

USA Mangiar sa-NO. Una nazione che si sta distruggendo con la propria forchetta

Dall'Homo Scatulis all'Homo Fast Foodis
 http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/500gialla/hrubrica.asp?ID_blog=368

Ma da Detroit arriva una nuova tendenza green
CHIARA BASSO

Una nazione che si sta distruggendo con la propria forchetta. È questo quello che mi viene in mente guardandomi attorno. Magliette messe a dura prova da pance esorbitanti, rotoli di grasso che scappano dalla cintura (come i bordi di un muffin, dice un mio amico), donne prigioniere delle proprie cosce che non riescono quasi a camminare. Ma come sono arrivati a questo punto? Non dico nulla di originale se scrivo che gli americani hanno un pessimo rapporto con la bilancia. Anzi, per essere giornalisticamente precisi, il 68% di questa nazione è sovrappeso o obeso. La percentuale di adolescenti obesi è aumentata dal 5% del 1980 al 18% del 2008. L’altro giorno ho visto il documentario “The Weight Of The Nation”, il peso della nazione, sull’emittente HBO e ho scoperto che i bambini americani per la prima volta hanno un’alta probabilità di morire più giovani rispetto alla generazione dei propri genitori. E ciò, appunto, per questioni alimentari.

Ma dal momento che mi trovo sul campo per fare giornalismo consumando i copertoni dell’auto, se non proprio le suole delle scarpe come una volta, non me la sento di elencare sterili dati. E allora parliamo del problema partendo da un oggetto comune come un apriscatole. Ieri io e Stephanie, la collega francese che mi seguirà in quest’avventura fino a New Orleans, ci siamo concesse il primo pranzo decente da inizio viaggio. Gli altri giorni infatti, un po’ perché stiamo viaggiando con un budget ridotto e un po’ perché ci disgustavano i fast food da cui eravamo circondate, ci accontentavamo di farci delle insalate home-made comprando gli ingredienti al supermercato. Triste, lo so. Ma ci si adatta.
L’altra sera Stephanie ha comprato una scatola di tonno senza apertura facilitata. “Ma sei sicura che poi troviamo l’apriscatole?” chiedo. “Ma certo, ci sarà qualcuno che ce lo presta” risponde fiduciosa lei. E parte alla caccia al prezioso strumento. Torna dopo mezz’ora a mani vuote. Nessuno, tra motel, fast food vicini e perfino il benzinaio, aveva un apriscatole. E così, se fino a una generazione fa quest’oggetto era stigmatizzato come quintessenza di cattiva alimentazione e segno di pigrizia gastronomica, ecco che nell’evoluzione della specie americana l’apriscatole diventa quasi un oggetto di arte culinaria. Se ti avventuri a usarlo, vuol dire che hai intenzione di cucinare. Per l’americano medio è meglio andare in un fast food dove tutto è già pronto e costa poco. Se passi in un McDrive non devi nemmeno fare la fatica di scendere dall’auto. Ti allungano direttamente al finestrino un Sausage Burrito o un Sausage McMuffin da un dollaro l’uno.

E che gusto ha questo cibo ‘veloce’? Tutto è troppo salato, troppo dolce, troppo fritto. E il palato s’impigrisce, diventa insensibile ai sapori. Si inizia male fin dalla colazione dove ti vengono serviti cereali dai colori fosforescenti e cupcake dalle tinte forti, proprio come l’amanita muscaria, il fungo velenoso rosso a pallini bianchi. Perfino il cibo che ti sembra sano non lo è. L’altro giorno ho dimenticato delle fragole dentro la 500 gialla che è rimasta tutto il giorno al sole. Ho pensato: a questo punto ci farò la marmellata. E invece no. Erano tutte lì, rosse e carnose come non mai. Solo una, la più debole del gruppo, aveva un po’ di muffa. Mai vista in natura una cosa simile.

E le porzioni. Gigantesche. Allora ho provato a chiedere agli americani che cosa ne pensano. Da lunedì sto twittando su un account americano che fa parte di un movimento chiamato Rotation Curation. Sono stata invitata a essere il ‘curatore’ del loro account TweetWeekUSA per una settimana. Così il primo giorno ne ho approfittato per gettare un sasso in questo stagno virtuale che ancora non conoscevo. “Una delle prime cose che mi hanno colpito da quando mi sono trasferita in US sono le porzioni. Troppo grandi” ho twittato. Si è subito scatenata una tempesta di cinguettii. Alcuni inneggiavano al piatto pantagruelico, ma i più riconoscevano che effettivamente si era superata la misura via via negli anni.
Per fortuna esiste anche una contro-tendenza. Senza arrivare agli eccessi della California, dove integralisti del ‘mangiar sano’ si nutrono solo di cibo biologico e local e mai mangerebbero un pomodorino dalla provenienza dubbia, già in New York si possono trovare diversi supermercati con cibi bio (che poi, anche lì, bisognerebbe davvero indagare quanto biologici siano) e orti su rooftop con vista Manhattan. Ma, a sorpresa, anche in una città dall’animo profondamente industrializzato come Detroit si sta sviluppando un movimento che crede fortemente nel ritorno a un mangiar sano, naturale e in porzioni decenti. Ne è prova l’Eastern Market che ogni sabato su Russell Street richiama oltre 40mila persone da tutto il Michigan, ricchi e poveri, bianchi e neri. “Dopo lo sport, questo è l’unica occasione in cui veramente tutti gli abitanti di Detroit si ritrovano a Downtown” mi ha detto un’amica che vive in Motor City.

E per chi abita nel cuore di Detroit questa è anche l’unica occasione per trovare cibo fresco. Sotto le volte del mercato di pietra costruito nel 1891 ogni settimana si ritrovano 250 produttori indipendenti. Possono rappresentare piccole aziende agricole, fattorie degli Amish, coloro che alla modernità non hanno mai ceduto, ma si trovano anche famiglie come la ‘Bike Family’, come l’ho battezzata, ossia una coppia con bambino piccolo che coltiva ortaggi nel giardino di casa e li rivende spostandosi in bicicletta da un posto all’altro. In questo mercato si trova di tutto, dai formaggi alle fragole che marciscono come un tempo. E finalmente hai la sensazione che potresti anche fare a meno dell’apriscatole.
18/5/2012 - IN PONTIAC, ILLINOIS

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